Sindrome Germania: distruzione nel Dna, ora l’austerità. Governi devono fermarla

di Redazione Blitz
Pubblicato il 2 Settembre 2014 - 11:48 OLTRE 6 MESI FA
Angela Merkel e Mario Draghi

Angela Merkel e Mario Draghi

ROMA – “Inutile – scrive Marco Fortis del Messaggero – passato il primo stupore suscitato dalle clamorose indiscrezioni di Der Spiegel, perdere ulteriore tempo a ricostruire se sia stata Angela Merkel a telefonare a Mario Draghi, come sostenuto dal settimanale tedesco, o se, come ha precisato (piuttosto tardivamente) il portavoce della cancelliera, sia stato il presidente della Bce ad alzare per primo la cornetta”.

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Inoltre, dopo le prime reazioni indignate tipo «ma dove è finita l’indipendenza della Bce?», anche il contenuto della conversazione ricostruito dal periodico Der Spiegel secondo cui la Merkel avrebbe chiesto con durezza a Draghi se egli avesse cambiato linea su austerità e rigore, è stato smentito ufficialmente dai portavoce di entrambe le parti. Piuttosto, conviene analizzare i fatti nella loro sostanza e cioè il discorso fondamentale che Draghi ha tenuto a Jackson Hole, negli Stati Uniti, il 22 agosto scorso e le reazioni ufficiali che esso ha subito suscitato. E semmai valutare, qualunque sia stato il contenuto e il tono della conversazione tra il presidente della Bce e la cancelliera, la netta dichiarazione del ministro delle Finanze tedesco Schaeuble secondo il quale le parole di Draghi a Jackson Hole sarebbero state male interpretate dai mercati. Ma che cosa aveva detto esattamente Draghi in occasione del Simposio annuale delle banche centrali che pressoché tutti – politici e analisti – pensavano di aver capito chiaramente ad eccezione del ministro delle Finanze tedesco? Innanzitutto Draghi ha tenuto un discorso intitolato “La disoccupazione nell’Euroarea”, dunque un tema molto delicato che di per sé è già una indicazione precisa delle attuali priorità. Nella prima parte del suo intervento, grafici alla mano, Draghi aveva messo a confronto la diversa dinamica del tasso di disoccupazione tra Stati Uniti ed Eurozona a partire dal 2008. Negli Usa, dopo essere fortemente aumentato fino a metà 2009, il tasso di disoccupazione cominciò poi subito a scendere per tornare oggi quasi ai livelli iniziali. Nell’Unione Europea dell’euro, invece, esso ha continuato a crescere fino al 2009 (ma meno che negli Usa dove la crisi mondiale era scoppiata); in seguito anche la disoccupazione dell’Uem come quella Usa stava cominciando a diminuire quando, in concomitanza con la crisi dei debiti sovrani del 2011 e le successive politiche di austerità, ha poi ripreso ad aumentare fino a toccare gli attuali massimi da cui fatica a scendere. Draghi ha quindi chiaramente sottolineato un caso di successo ed uno di insuccesso.

Il presidente della Bce ha poi messo in evidenza la relazione tra stress fiscale e disoccupazione nell’Eurozona, che ha colpito soprattutto i Paesi più impegnati nell’austerità. Ed infine ha sviluppato una sua idea su come rispondere alla disoccupazione troppo elevata, affermando: «Abbiamo bisogno di un’azione su entrambi i lati dell’economia: politiche di domanda aggregata devono essere accompagnate da politiche strutturali nazionali». E più oltre ha detto: i rischi di fare «troppo poco», cioè che la disoccupazione diventi strutturale, superano quelli di fare «troppo», cioè che vi siano incrementi eccessivi dei salari e pressioni sui prezzi. Dal lato della domanda la ricetta di Draghi è che «la politica monetaria può e dovrebbe giocare un ruolo centrale, che attualmente significa una politica monetaria accomodante per un esteso periodo di tempo» e con ciò egli si riferiva al pacchetto di misure annunciate dalla Bce in giugno. Ma Draghi ha anche aggiunto che «la politica fiscale potrebbe giocare un ruolo più grande a fianco della politica monetaria». Enfatizzando quattro elementi su cui agire: 1) la flessibilità entro le regole esistenti (che potrebbe rafforzare la debole ripresa e creare una compensazione per sopportare i costi delle necessarie riforme strutturali); 2) una composizione più «favorevole alla crescita» delle politiche fiscali (con un abbassamento delle tasse in settori che hanno un moltiplicatore fiscale più alto nel breve termine e un taglio delle spese nelle aree meno produttive in cui il moltiplicatore è più basso); 3) un maggiore coordinamento tra le politiche fiscali dei 18 Paesi membri dell’Uem; 4) infine, un grande programma di investimenti pubblici così come proposto dal nuovo Presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker (100 miliardi di euro l’anno per tre anni). In tutto ciò, il mondo intero ha visto un Draghi pronto a delineare uno scenario di saggia politica economica che prende atto dei fatti e dei problemi da risolvere e in cui rigore e crescita possano coesistere anche nell’Eurozona. Inoltre, i quattro punti con cui le politiche fiscali possono non solo chiedere sacrifici ma anche essere da stimolo per la crescita economica, sono parsi chiari a tutti coloro che hanno letto il suo discorso per intero. O, meglio, a tutti tranne che al ministro tedesco Schaeuble e a quegli ambienti tedeschi che con la linea del rigore senza crescita stanno portando l’Eurozona alla deflazione e al disfacimento. L’ostinazione sull’austerità distruttrice di ricchezza e posti di lavoro appare sempre più incomprensibile e la Germania, che pure è un modello in molti campi (compreso quello di difendere i propri interessi), di certo non sta dimostrando di esserlo come leader europeo a cui dovrebbero stare a cuore anche le sorti dei propri partner. Ma, dirà qualcuno, a Berlino non si rendono conto che senza la crescita dell’Eurozona anche la Germania si ferma? Sì, in effetti è così, ma il Pil in fondo non è tutto agli occhi dei tedeschi. Infatti, anche senza crescita la Germania aumenta comunque ogni mese la sua potenza in un’Europa sempre più debole, si fa finanziare a tassi irrisori oltre 1.200 miliardi del proprio debito pubblico dagli stranieri, conserva il suo surplus con l’estero ben oltre i limiti delle regole europee di cui si infischia, mentre la ricchezza finanziaria netta delle sue famiglie (che risparmiano e non consumano) dal primo trimestre 2008 al primo trimestre di quest’anno è aumentata di oltre 750 miliardi di euro. Draghi è il presidente della Bce (che, è bene ricordarlo, è una istituzione indipendente dai governi) e non è un politico. Può tratteggiare dall’alto della sua autorità e competenza un quadro di politiche monetarie e fiscali che permettano all’Eurozona di uscire dalla crisi, come ha fatto a Jackson Hole. Ma è e rimane una personalità sopra le parti. Sta invece ai governi degli altri Paesi europei, se non vogliono essere semplici pedine di un gioco in cui non contano nulla, imporre alla Germania un serio confronto su un cambiamento di linea della politica economica dell’Uem che appare essenziale.