Teatro dell’Opera, Marino licenzia. Ajello: gesto coraggioso. Merlo: populismo

di Redazione Blitz
Pubblicato il 3 Ottobre 2014 - 11:35 OLTRE 6 MESI FA
Teatro dell'Opera, Marino licenzia. Ajello: gesto coraggioso. Merlo: populismo

La prima pagina del Messaggero del 3 ottobre 2014

ROMA – Sul licenziamento il blocco di orchestra e coro del Teatro dell’Opera di Roma (si tratta, in realtà, di “182 unità di personale su 460”), Mario Aiello del Messaggero e Francesco Merlo di Repubblica hanno un diverso parere. Si tratta, alla fine, di una decisione di cui si assume la responsabilità politica Ignazio Marino, che in qualità di sindaco di Roma è presidente del Teatro dell’Opera. Quel Marino al quale in passato Aiello e Merlo non hanno risparmiato critiche.

Ma stavolta le due firme non sono d’accordo. Per Aiello si tratta di “una svolta del coraggio”, di “un metodo Marino” che “può valere come spinta per l’orgoglio di Roma”, capitale d’Italia stanca di essere paralizzata dai “Cobas del violino”. Per Merlo invece è una “miserabile vendetta politica” in cui Comune e Cda scaricano sugli orchestrali il fallimento economico della gestione e sacrificano “questo mucchio selvaggio di musicisti […] non al Jobs Act, al riformismo laburista del mercato del lavoro, ma al più odioso e coriaceo populismo italiano”.

Musica completamente diversa. Iniziamo con quella di Ajello:

Un gesto coraggioso. Il sindaco Marino ha azzerato il contratto degli orchestrali del Teatro dell’Opera per ricominciare al meglio. Secondo nuovi standard di eccellenza e di meritocrazia. E questa iniziativa che spezza il passato e guarda avanti può valere come spinta per l’orgoglio di Roma. Stanca di essere inchiodata a un sistema corporativo e pansindacalizzato, che ha impedito finora di fare cultura e di fare musica all’altezza del prestigio della Capitale d’Italia. Madrid, Berlino, Londra, Vienna hanno orchestre ingaggiate a tempo determinato – senza Cobas del violino, stacchi o distacchi sindacali – che trattano attraverso una cooperativa il numero di esibizioni che sono tenute a fare in una stagione. Sono state esternalizzate in quelle metropoli le orchestre e i cori, e poi messe a contratto con gli enti teatrali.

Così fan tutti e noi no? Il coraggio di essere come gli altri e meglio degli altri, e di poter competere con le produzioni artistiche e con i criteri di gestione in uso all’estero, finalmente lo abbiamo trovato. Il metodo Marino, condiviso anche dal ministro Dario Franceschini e dal presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, consentirà adesso di puntare sull’eccellenza di chi suona e di chi organizza il sistema e rappresenta un modo per ripercorrere le orme di Jack Lang. Il celebre ministro francese della cultura che venti anni fa chiuse l’Opéra di Parigi e la fece rinascere dalle sue ceneri assai più forte e competitiva. Su quella traccia, l’operazione che si fa oggi a Roma elimina al Teatro dell’Opera e in prospettiva ovunque – anche fuori dal mondo degli enti lirici – le incrostazioni assembleari e paralizzanti, figlie della contrattazione sindacale d’origine sessantottina che ha ridotto la cultura italiana, insieme ad altri settori pubblici, nello stato paludoso e improduttivo che abbiamo tutti sotto gli occhi. Basti ricordare gli spettacoli saltati la scorsa estate a Caracalla. Per non dire dell’umiliante ma sacrosanto rifiuto del maestro Riccardo Muti di esibirsi a Roma: «In questa città non si può lavorare».

Ora, grazie al metodo Marino, forse si ricomincia. Il che non significa – come i soliti soloni della conservazione parassitaria sono pronti a pensare e lesti a gridare fuori tempo e fuori sincrono: «Tutto allo Stato e niente fuori da esso!» – perdere, in favore del diabolico mercato e della demoniaca concorrenza, lo straordinario patrimonio artistico e professionale che c’è al Teatro dell’Opera, ma liberarsi soltanto e non è affatto poco della zavorra corporativa e dei pesanti paraocchi fintamente egualitari che hanno prodotto ingiustizia e disservizi. Gli orchestrali e le maestranze devono essere retribuiti sulla base della qualità delle performance e non sulla base della solita tiritera dei diritti eternamente acquisiti e dunque intoccabili. Roma deve andare fiera di questo strappo delle radici sbagliate e di questo rifiuto delle degenerazioni non più tollerabili. Ha dato uno strattone al felliniano caos dell’Italia da «Prova d’orchestra» e può mostrare la forza di una Capitale che nella musica, e in tutto il resto, non ha niente da invidiare alle altre grandi città”.

Tutt’altro spartito suona Francesco Merlo, che su Repubblica attacca così la scelta di Marino e Fuortes:

“SE IL liberalismo è questo, allora era meglio il socialismo. Rischiano infatti, i 92 orchestrali e i 90 coristi di Roma licenziati per rappresaglia dal sindaco Marino, di essere per l’Italia di Renzi quel che i minatori furono per l’Inghilterra della Thatcher. Non che sia sbagliata l’idea di far penetrare il mercato nella stonata corporazione del Golfo Mistico.

E QUINDI di fare gareggiare i professori d’orchestra con il merito, di farli competere fra loro per guadagnarsi il posto che oggi invece è assicurato dalla Cgil. Ma sono miserabili la vendetta politica e lo scaricare solo su di loro il disastro dell’Opera, che non è musicale ma economico — trenta milioni di buco — , è manageriale, politico, di cattiva amministrazione e di gestione clientelare scombicchierata, con un pubblico che mai si stringe attorno al suo teatro come succede non solo a San Pietroburgo e a Londra, ma anche a Milano e soprattutto a Napoli.

Viene offerto, questo mucchio selvaggio di musicisti, come carne sacrificale non al Jobs Act, al riformismo laburista del mercato del lavoro, ma al più odioso e coriaceo populismo italiano. Li hanno donati alla rabbia diffusa del «dovrebbero cacciare tutti a calci nel sedere» quando a Fiumicino scioperano i piloti; allo spasmo plebeo della contumelia quando dal lavoro si astengono i tassisti, e così gli infermieri, i giornalisti, i professori, insomma quando scioperano … gli altri, che sono sempre «braccia rubate all’agricoltura», e «se dipendesse da me ci metterei la bomba», e «in galera vi mando».

E, come al solito, nella demagogia del decisionismo di pancia, c’è sempre l’ombra di Mussolini, dei trentaseimila ferrovieri licenziati in un colpo solo perché «basta con lo Stato postino e ferroviere». Dunque ieri il sindaco, che è per statuto il presidente del teatro, e il sovrintendente Fuortes e il ministro Franceschini sono riusciti nell’impresa, che sembrava impossibile, di trasformare gli odiosi, intollerabili privilegiati dell’Opera di Roma nei bastonati, nei reietti, nelle vittime di quelle squadracce del malumore che subito si sono scatenati, non solo sul Twitter, «era ora», «evviva, il primo trombone non è d’accordo!», «andate a casa, maledetti». Ed è allegretto con brio il ritorno in scena, a fianco — nientemeno — della Cgil, dell’empio Alemanno che ai suoi tempi era riuscito a svuotare le casse peggio ancora degli altri, e a riempire le scene di clienti sino a creare il doppio ruolo: due direttori amministrativi, due capi ragionieri, tre avvocati … e persino due bar, uno chiamato “champagneria” per dare sfogo ai semivip smandrappati di Dagospia, raccolti in Cafonal dall’Associazione Amici del teatro dell’Opera guidata dalla mitica Silvana Pampanini.

Nella veste dei tagliatori di teste — «faremo un cosa che in Italia non è mai stata fatta» — sembravano ieri, Marino e Fuortes in conferenza stampa, due innocenti orgogliosi: «Siamo i primi, diventerà un esempio». Come se il crac della musica e più in generale della cultura a Roma non dipendesse soprattutto da loro, e come se Muti non fosse scappato anche da loro. Il direttore in fuga non ha parlato né di orchestra né di sindacati, ma di un clima, di una mancanza di serenità, di condizioni non più felici che non è possibile attribuire a un solo colpevole. Anche il suo silenzio di oggi è un momento di questa musica. La vigliaccheria non gli appartiene, anzi è l’impeto meridionale che talvolta ne ha ridimensionato la magnificenza artistica.

Muti conosce l’Opera di Roma e sa bene che ci sono competenze che non si inventano. Non è vero, per esempio, che i grandi teatri del mondo hanno orchestre usa e getta, dall’Opera di Parigi, al Covent Garden, al Metropolitan di New York. Ce n’è solo qualcuno che, con l’eccezione di Madrid, non è però di “serie A”, come il modesto Chatelet citato da Fuortes. Nei due grandi teatri lirici di Vienna e Berlino, ieri evocati a sproposito, l’assetto aziendale è quello tradizionale dei dipendenti fissi, a contratto. Proprio ieri Dominique Meyer, sovrintendente dell’Opera di Stato di Vienna ha confermato che «solo quelli piccoli che non prendono soldi dallo Stato lavorano invece con ingaggi di volta in volta».

E diciamo la verità: solo al sindaco Marino poteva venire in mente di annunziare con l’enfasi della genialità che avrebbe sostituito Muti con una donna a prescindere. E ha fatto i nomi di tre bacchette rosa, come se la demagogia di genere potesse irrobustire quei talenti ancora fragili che un gentiluomo non avrebbe mai dovuto esporre all’ordalia del paragone con Muti. Certo, abbiamo già scritto degli assalti al camerino del maestro, delle assemblee nelle pause, della furbizia nazionale dei certificati medici per non andare in tournée. E l’Italia, che ha riso dell’indennità frac e del risarcimento per gli spifferi, ha invidiato quel primo violino che lavora 62 giorni ed è pagato per 180.

Ma bene si capiva ieri che Marino e Fuortes volevano suonare la nota dell’abolizione dell’articolo 18. E invece hanno finito con lo sporcare quella necessaria riforma civile. È infatti raccapricciante l’idea che la via italiana al liberalismo sia quella dei licenziamenti di massa, delle vendette, delle purghe, delle pulizie etniche di intere categorie, per quanto odiose esse siano. L’Italia è un arcipelago di isole ingovernabili, come e peggio dell’Opera di Roma, dalla Rai all’Inps, dalla Sanità ai Musei. E si potrebbe continuare illustrando gli infiniti privilegi corporativi spacciati per diritti sindacali. Ma se la soluzione fosse davvero quella di Marino e Fuortes, «alla prima che mi fai ti licenzio e te ne vai», allora … arridatece i Soviet”.