NY, spinto nella metro. Fotografi la morte col telefonino: souvenir di tragedia

di Daniela Lauria
Pubblicato il 6 Dicembre 2012 - 11:37| Aggiornato il 11 Luglio 2014 OLTRE 6 MESI FA
La copertina del New York Post

NEW YORK – Erano le 12.30 di lunedì quando Ki-Suck Han è stato spinto da un energumeno sui binari di una metro a New York, vicino a Time Square, ed è morto travolto dal treno che sopraggiungeva sotto gli occhi impassibili di 18 persone che sostavano in banchina. Il giorno dopo, la morte di Ki-Suck Han, 58 anni, coreano, catturata in una foto, è stata sbattuta in prima pagina dal New York Post, un tabloid americano del gruppo Murdoch. E l’America tutta si è sconvolta, per quel reporter dell’orrore , per quel vuoto agghiacciante creatosi attorno a Ki, per il cattivo gusto del tabloid di sbattere in prima pagina la “morte in diretta”, per le decine di immagini proliferate in rete. Souvenir di una tragedia annunciata che i testimoni hanno catturato e condiviso con il mondo intero, mentre un padre e un marito moriva così.

Sotto un titolo a caratteri cubitali, “Doomed” (condannato, ndr), si intravede l’uomo aggrappato al marciapiede che tenta di trarsi in salvo, con lo sguardo rivolto al treno che sta per travolgerlo. Condannato sì, ma oltre che dalle circostanze, anche dalla scelta cinica di Umar Abassi, il fotografo, che in quell’attimo ha imbracciato la fotocamera invece di tendere un braccio all’uomo. Lo ha visto poco prima che morisse ma con chirurgica perizia lo ha dato per spacciato e ha preferito catturare la sua fine in 59 fotogrammi. Poi la ridondanza della didascalia che informa i lettori del New York Post: “Spinto nei binari della metro,quest’uomo sta per morire“.

Abbasi si è giustificato dicendo che altro non poteva fare e quindi ha cominciato a scattare foto a raffica, con il flash, per illuminare la scena e avvisare in qualche modo l’autista. “Ho iniziato a correre e correre, sperando che il conducente potesse vedere il mio flash. In quel momento volevo solo avvisare l’autista del treno e cercare di salvare la vita dell’uomo”, ha spiegato al complice New York Post. Ammesso che fosse vero, resta un quesito di non poco conto: era necessario pubblicarle quelle foto?

Attaccato da tutti, il Post, per aver dato a quelle foto raccapriccianti una copertina, difendendone l’esclusiva e rifiutandosi di condividerle con l’Associated Press, ha scatenato un dibattito senza fine. E mentre in rete e su tutti i giornali volano paroloni come “etica del giornalismo” e “omertà” di chi era lì ma come il fotoreporter nulla ha fatto per salvare Ki, quell’insano voyeurismo di quanti all’indomani della tragedia corrono a comprare la “morte in diretta” a un dollaro in edicola, si alimenta e prospera.

L’American Thinker punta il dito e condanna senza appello il fotografo e la direzione del Post: “Le loro carriere saranno definite per sempre dall’infamia che hanno commesso”. Il Christian Science Monitor estende le accuse anche agli altri testimoni: “Erano in 18 sul marciapiede ma quando Ki ha bisogno di una mano per risalire, improvvisamente, a mezzogiorno nella stazione di Times Square della linea Q, attorno a lui si fa il vuoto”. David Carr dalle colonne del New York Time è ancora più severo: “Questa vicenda – scrive – incarna tutto ciò che ha spinto la gente a perdere la fiducia nei giornalisti: gente che assiste passiva, eunuchi morali che non intervengono quando il pericolo o il male si materializzano davanti a loro. E che, magari, segretamente tifano perché il peggio accada”.

E dopo è successo anche di peggio, dopo l’impatto anche tutti gli altri, telefonino alla mano sono corsi a riprendere la macabra scena e l’hanno postata su YouTube o sul proprio social network. Tutti citizen journalist, tutti a cogliere il punctum come se fossero giornalisti di guerra, tutti che portano a casa il souvenir di una morte annunciata. Non capita tutti i giorni.