Bagnasco chi? L’impossibile eredità del cardinale Siri

di Sergio Carli
Pubblicato il 7 Settembre 2009 - 09:23 OLTRE 6 MESI FA

Bagnasco chi? Agli illustri e storici commentatori, come Eugenio Scalfari, che si chiedono chi sia in realtà il cardinale arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco, usando l’interrogativo sul suo nome per sottolinearne la fragilità “politica” nella vicenda Boffo, si può rispondere con un ritratto un po’ a sorpresa.

Il successore di Giuseppe Siri, cardinale-principe non solo della Chiesa genovese, ha scelto lo stile estetico del suo grande predecessore per calcare la scena della Curia del capoluogo ligure, ma non ha la sua forza teologica, né la sua capacità di comunicare e di imporre la propria personalità nella Chiesa di Roma.

Da quando quasi due anni fa è diventato arcivescovo di Genova e poi, al primo Concistoro, cardinale di Santa Romana Chiesa, Bagnasco ha scelto la figura di Siri per trovare un passo da grande eminenza. Non è un caso che la sua ascesa alla presidenza della Cei ripeta il percorso del cardinale-principe negli anni Cinquanta-Sessanta, contemporaneamente pastore a Genova e capo dei vescovi a Roma.

E poi Bagnasco si è seduto sulla cattedra di Genova subito dopo il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato e oggi suo nemico nelle lotte interne vaticane e dopo Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, il prelato più forte tra i vescovi fino alla nomina di Bagnasco, ma anche l’alfiere del fronte di sinistra, sotto il regno di papa Ratzinger.

Imposto ai vescovi come soluzione soft da un patto di ferro tra Camillo Ruini, il suo predecessore alla Cei e Bertone, Bagnasco ha cercato il modello Siri per non risultare un vaso di coccio. Stessa eleganza, perfino ricercata nell’indossare le insegne e i paramenti del ruolo, stessa apparente severità nel portare la porpora in mezzo al suo gregge, ma anche tra Genova e Roma, stesso stile oratorio ricercato, ma anche stesse aperture verso il suo clero e verso “il sociale”.

Bagnasco e Siri hanno in comune anche le umili origini genovesi, figli del popolo, cresciuti nel ventre della città, nei caruggi e nei quartieri popolari di una Genova che è così cambiata. Scampata alle distruzioni belliche, ma capace di ricostruirsi nelle grandi aziende Iri e in un porto allora quasi egemone nel Mediterraneo e lungo assi di potere forti come l’acciaio dell’Italsider, quella città Superba di Siri, in piena trasformazione postindustriale, con le mine innescate dell’immigrazione e del declino marittimo portuale, senza punti di riferimenti politici locali, quella fragile di Bagnasco.

Siri interloquiva con Paolo Emilio Taviani, Giorgio Bo, ministri della Prima Repubblica trionfante, con Angelo Costa, presidente di Confitarma e Confindustria. Bagnasco deve accontentarsi di leader molto più piccoli e può solo sperare che il ministro berlusconiano Claudio Scajola venga a trovarlo dalla sua Imperia, se vuole a casa sua uno scambio politico di un certo livello. Il Pd del sindaco Marta Vincenzi e del presidente della Regione Claudio Burlando non ha frequentazioni in Curia. Un dialogo impossibile.

Se Siri aveva fatto un’intera carriera genovese, Bagnasco, il suo imitatore del terzo Millennio, ha dovuto passare per la curia di Ascoli e poi per l’incarico importantissimo, e per lui decisivo, di Ordinario Militare, per fare carriera.

A Genova “Angelino” non era diventato neppure parroco. Insegnava teologia in Seminario e faceva il secondo in una grande chiesa del quartiere elegante di Albaro, dedicandosi molto alle organizzazioni scout.

Le mostrine sulla veste di vescovo e le grandi frequentazioni romane gli hanno fatto acquisire, dopo l’ordinazione vescovile ad Ascoli, un tono e uno stile per il quale in Vaticano la stella di questo genovese, piccolo di statura, lenti sottili, ragionare molto prudente, ma mai sfuggente, capacità di stare in equilibrio tra le tendenze contrapposte della Chiesa Universale di papa Woytila, ha incominciato a brillare.

Il suo ritorno a Genova, alla fine del 2007, era stato apparentemente una perfetta operazione di normalizzazione di una Curia, un po’ esaltata dai suoi due ultimi titolari, appunto Dionigi Tettamanzi e Tarcisio Bertone.

Ci voleva un genovese dopo quei due “carrieristi”, passati per la Superba e destinati a impegnativi e grandi destini vaticani. Ci voleva un arcivescovo che stesse sul pezzo e si rimpadronisse della città e della Curia, offrendo l’impressione che la sede genovese, non fosse un illustre transito per le vette della Chiesa. Tettamanzi il cardinale no global del G8 terrificante e Bertone, il cardinale salesiano, con le cuffie da reporter sportivo tv nello stadio di Marassi.

Bagnasco sembrava fatto apposta e aveva incominciato quel percorso di “ricostruzione” siriana, non tanto nel conservatorismo teologico, ma proprio nel disegno del personaggio. Riservato, ma forte, silenzioso ma presente, pronto a consumarsi le suole nei vicoli di Genova per portare sollievo e solidarietà ai suoi preti, nelle chiese assediate dal degrado e dalla immigrazione senza confini.

Poi è arrivata la Cei e la vita di Bagnasco è improvvisamente cambiata, nella primavera del 2008. Non solo Genova da conquistare, ma i vescovi da coordinare dopo l’ombra lunga di Ruini e con il prevaricante Bertone che lo considerava un fuscello facile da spostare per impossessarsi dei delicati rapporti con la politica italiana.

Bagnasco è scivolato una prima volta, pochi mesi dopo l’investitura romana, facendosi attribuire frasi imprudenti in un incontro con esperti di comunicazione.

«Se si tradisce l’etica si può passare dalla legittimazione dei Dico a quella dell’incesto», era la frase incriminata, pubblicata da un quotidiano genovese e smentita da Bagnasco, ma capace di scatenargli addosso una tempesta. Sui muri di Genova sono comparse scritte violente contro il Cardinale. In Curia sono state spedite missive di minacce e addirittura proiettili simbolici. Il cardinale-presidente della Cei ha vissuto più di un anno scortato perfino sull’altare da body guard che davano le spalle ai Santissimi Sacramenti per vigilare sulla sua sicurezza e scrutare i fedeli, cercando il possibile attentatore.

Un inferno per un pastore, impossibilitato a circolare tra il suo gregge. E, sopratutto, le prime diffidenze in Vaticano, per l’imprudenza. Non dimostrata, ma esplosiva.

Da allora tutto era diventato più difficile per Bagnasco, capace di tenere il filo delle riforme restauratrici di Ratzinger, usando la sapienza siriana, ma più debole di fronte alle sventagliate di Bertone, prorompente nel gestire le delicate questioni tra Stato e Chiesa, tre Berlusconi, l’eutanasia, la pillola abortiva, la voglia di Grande Centro e gli sfarinamenti dei cattolici impegnati in politica.

Da quando è esploso il caso Boffo, è come se il cardinale Bagnasco fosse di nuovo sotto scorta. Nei prossimi giorni non andrà in Turchia a guidare un maxipellegrinaggio di fedeli genovesi. Deve presidiare la Cei, preparare il Congresso del 21 settembre dove si deciderà il nuovo direttore di Avvenire e guardarsi bene alle spalle. Siri non si sarebbe mai fatto mettere in una posizione simile. Almeno fino all’ingresso nei due Conclavi che potevano eleggerlo Pontefice. E da cui uscì ancora cardinale, ma sempre principe di Genova.