Documentario schock, massacro di delfini in una baia giapponese. Minacce al regista

Pubblicato il 27 Agosto 2009 - 14:21 OLTRE 6 MESI FA

Una mattanza che si ripete ogni anno, da sempre e che sembrava destinata a rimanere segreta. È la strage dei delfini di Taiji, una città giapponese a 500 Km a Sud-Ovest di Tokyo.

La cittadina sorge proprio in prossimità di una delle principali rotte migratorie dei mammiferi marini. Qui, quando arriva la stagione, un gruppo di pescatori va in mare e produce con i remi una barriera sonora che serve a disorientare i delfini e a farli cadere in trappola nella baia.

Qualche decina di loro viene presa e destinata agli acquari di mezzo mondo. Gli altri, invece, vengono letteralmente massacrati a bastonate e venduti sul mercato alimentare, spesso spacciati per la prelibatissima carne di balena. Parte dei mammiferi macellati, poi, finisce anche nelle mense scolastiche.

Fino ad un anno fa, la mattanza di Taiji, città dove il delfino è apparentemente venerato con tanto di statue e mosaici,  si svolgeva in gran segreto.

Ora, però, il documentario «The Cove» («La Baia»), presentato e premiato all’edizione 2009 del Sundance Film Festival  sta mostrando la cruda verità.

Il trailer, accessibile in Rete, viene visto da un numero sempre crescente di utenti inorriditi.

A girare il documentario sono stati Louie Psihoyos, fotografo con 18 anni di militanza nel National Geographic e Richard O’Barry, che negli Anni Sessanta addestrò il delfino della serie Tv Flipper e che ora, proprio a causa di quell’esperienza, è un feroce oppositore della cattività dei mammiferi marini.

I due si sono serviti di due esperti di apnea che hanno collocato delle telecamere nascoste sul fondo della baia. E hanno ottenuto un risultato impressionante: dopo il massacro, tutta l’acqua della baia è di colore rosso.

Psihoyos aveva anche tentato di girare il documentario per vie legali; dopo aver chiesto le autorizzazioni, però, è stato minacciato in modo non proprio velato dal sindaco della città giapponese: «Avvicinarsi alla baia», che è inaccessibile e circondata da siepi di tela catramata e telecamere a circuito chiuso, «può voler dire farsi molto male».