Elezioni europee, Berlusconi, Franceschini, Di Pietro e Casini: analisi di un voto che viene da lontano

di Marco Benedetto
Pubblicato il 8 Giugno 2009 - 21:13| Aggiornato il 13 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Il rischio che ora tutti corriamo, collettivamente, è di valutare i risultati elettorali in base agli ultimi eventi. L’Italia è un paese senza memoria e l’establishment, di cui i giornalisti sono parte integrante, è portato a valutare i fatti di oggi come conseguenza immediata di quanto accaduto ieri.

Ma la gente normale, cioè tutti noi, ma proprio tutti, compresi quelli col piercing e quelli che non leggono i giornali e nemmeno i fumetti, ha una specie di saggezza genetica. La saggezza genetica ci ha permesso di continuare a vivere in tutte le epoche, sotto tutti i regimi e si accoppia con una memoria profonda e radicata nell’inconscio. Quand’era di moda, la chiamavano saggezza popolare: poiché establishment e popolo sono antitetici, molto di quella saggezza sfugge ai piani alti della società.

Trasferiamo il ragionamento ai risultati elettorali e azzardiamo alcune interpretazioni.

La prima domanda che tutti ci poniamo in queste ore è certamente: ma cosa è successo a Berlusconi? Come è stato già bene spiegato in altra parte di Blitz quotidiano, Berlusconi è solo vittima delle sue eccezionali qualità di imbonitore. Non si può escludere che si sia inventato la storia del “40% il partito, 75% il suo Capo”, solo per tenere calma la base della ex An nel momento della confluenza nel Pdl, non da tutti gli ex fascisti condivisa. Infatti non ci ha mai fatto vedere non una tabella, ma nemmeno un appunto sul retro di una busta, dove fossero scritti quei numeri.

Ha sparato il 75%, ma poteva essere anche il 50 o il 90: certo non ha scelto quel numero a caso e potrebbe essere interessante per la tesi di laurea di uno studente di marketing. Ma qui non rileva. Quel che conta è che tutti gli sono andati dietro, prendendo per buona quella sparata e alla fine forse ci ha creduto anche lui. E così oggi tutti ma proprio tutti fanno il confronto non con i precedenti dati elettorali, ma con quel 40% che nessuno dubitava Berlusconi avesse già in tasca. Invece  resta il fatto, che sa di miracolo, per un partito al governo, avere perso due punti, partendo dal 37 e oltre per cento, nonostante la crisi economica, gli scandali, e il naturale logorio che viene dalle promesse elettorali di rado mantenute. Qualcuno, dalla parte del governo, questo lo ha notato e se lo è spiegato con la gestione del terremoto dell’Abruzzo e con la fine dell’emergenza rifiuti a Napoli.

È anche vero che Sarkozy, pur essendo al governo, ha registrato una forte crescita. Ma si devono considerare due cose. Una è la relativamente breve durata in carica di Sarkozy, presidente da almeno due anni (Brown paga lo scontento degli inglesi per gli ultimi tempi del governo Blair, a partire dalla guerra in Iraq); l’altra è che certamente hanno giocato elementi locali, quali l’occhiolino fatto da Sarkozy all’estrema destra di Le Pen, il fastidio per la campagna troppo personalmente anti di Bayrou (e chissà che anche il Pd italiano un po’ non l’abbia pagata…), lo sfascio del partito socialista che, al di là della sostanziale e lacerante scelta tra buttarsi a sinistra o puntare al centro, è stato anche dilaniato dalla rissa tra le due donne per il vertice, che certamente  ha giocato a favore del presidente.

C’è da sperare che chi l’ha detto non ci creda sul serio, perché il voto dato alla maggioranza di governo viene più che da una fiducia per le cose fatte, da una speranza per quel che potrà essere fatto. E questo è un patrimonio che si consuma, come lo stesso Berlusconi, che la memoria, lui, ce l’ha lunga, certamente ricorderà essendo stato a sua volta sfiduciato, seppur con esiguo margine, nel 2006.

Un discorso a parte meriterebbe la Lega Nord di Umberto Bossi, un partito radicato nel territorio, coerente ai suoi principi, che dove amministra non delude e anche per questo vince dove non c’è ancora. Ma il risultato della Lega, l’unica forza politica che oggi possa condizionare Berlusconi, non ha bisogno di elaborate interpretazioni.

Il Partito democratico, che avrebbe dovuto ottenere il massimo dalla crisi economica; dal fatto che in Italia, pur con l’autoproclamato partito del fare al governo, nulla funziona, esattamente come sempre; dallo scandalo provocato dalla moglie di Berlusconi sui suoi passatempi sentimentali invece ha chiuso in disastro. Che i suoi capi siano sollevati perché poteva andare peggio è motivo di affettuosa solidarietà nei loro confronti. Ma il fatto che un partito di opposizione vada peggio di quello al governo è una cosa da libro di storia. E qui torniamo alle fumose considerazioni fatte all’inizio: un dato elettorale non può essere spiegato con i fatti immediati, ma con precedenti più o meno remoti.

Mettiamo in fila i voti ottenuti dalle due componenti del Partito democratico negli ultimi dieci anni: siamo tra il 31,1 e il 31,3%, fino al 33,2% delle elezioni politiche del 2008. Ora il crollo. Ma non è un fatto immediato: infatti non ci si deve dimenticare che tra il 2006 e oggi ci sono stati il secondo governo di Romano Prodi e la segreteria del Pd di Walter Veltroni. Che la segreteria Veltroni fosse, come si dice in inglese, “doomed” era scontato per chi ricordasse come si era concluso il suo precedente passaggio alla guida delle Botteghe Oscure,  nell’omonima via romana, la ex sede del Partito comunista, in una delle sue varie mutazioni.

Il discorso sul governo Prodi è più complesso, perché da questa valutazione discende il giudizio sulla strada che la sinistra italiana dovrà intraprendere nel futuro.

Il secondo governo Prodi, nell’opinione di chi scrive, è stato uno dei peggiori che si possano ricordare, con un ministro dell’Economia che ha proclamato che pagare le tasse è bello e con un suo aiutante alle finanze felice nell’infierire sui ceti medi con il randello fiscale. Si sono rivelati del tutto dimentichi del fatto che dal rifiuto di pagare tasse ritenute ingiuste si sono scatenate rivoluzioni come quella di Cromwell in Inghilterra e quella che ha portato alla nascita degli Stati Uniti d’America; e dimentichi anche del fatto che quella che nel mondo occidentale è considerata la pietra miliare della democrazia, la Magna Charta, non è altro che un modo per imporre al re d’Inghilterra di non tassare i suoi sudditi abbienti (il popolo a quei tempi non era soggetto politico), se la tassa non fosse stata da questi ultimi approvata in parlamento.

Ostaggio dell’estrema sinistra, come Berlusconi è ostaggio della Lega, Prodi ha portato alla uscita della sinistra dal governo e alla scomparsa dei partiti della sinistra radicale. Infatti la percentuale di voti ottenuta dal neonato Pd alle elezioni del 2008, che è un massimo, il 33,2%, non deve ingannare, perché, nello stesso tempo, la sinistra è precipitata dal quasi 50 al 43, superata dalla destra di dieci punti.

La gestione Veltroni ha presieduto sul resto della vicenda, tranne gli ultimi mesi, con l’uscita del segretario sulla spinta della caduta di Renato Soru in Sardegna, anche quella facilmente prevedibile da un analista non accecato dalla partigianeria.

Ma ad aggravare le cose si è scatenata l’azione politica dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, un ex poliziotto e pubblico ministero che aveva già dimostrato ai tempi di Mani Pulite di essere capace di focalizzare con chiarezza e determinazione la sua azione, tutto subordinando all’obiettivo politico. Oggi Di Pietro sembra capace di dare voce a quella parte d’Italia che è esasperata per una qualsiasi ragione o delusione. E questo rende più difficile il lavoro per chi guida il Pd oggi. Mentre Di Pietro si pone come colui che è destinato, dall’esterno, a dare la linea alla sinistra, nel Partito democratico forte è certo la tentazione di chiudergli lo spazio, andando a sinistra e dimenticando la manovra di avvicinamento al centro che, a pensarci bene, ebbe inizio trenta e più anni fa, ai tempi dei Pci di Enrico Berlinguer. Già allora, l’obiettivo strategico era la conquista dell’elettorato moderato, che esprime la massa di voti necessaria per avere la maggioranza.

Quella dei dirigenti del Pd è una tentazione comprensibile quanto forte: davanti c’è Berlusconi, che non va mai dimenticato essere il più bravo e abile di tutti e che, ci possiamo scommettere, da domani dirà che il 35% era stato sempre il suo obiettivo e la sua previsione; di fianco c’è Di Pietro, che gli toglie terreno. E poi, su un altro lato, verso il centro, c’è il partito di Pierferdinando Casini, che sembra prosperare, nonostante tutti gli assalti da tutte le parti, solo per il fatto di esserci e di essere moderato e, nemmeno tanto in fondo, democristiano.

Forse a questo punto è opportuna uno sguardo, molto superficiale ma comprensivo, della storia repubblicana, che è sempore caratterizzata da esplosioni di voti di protesta: l’Uomo qualunque di Giannini, il partito liberale degli anni ’60 sull’onda di un po’ di scandali (chi ricorda quello dell’ente banane?), e poi, in fondo, la stessa crescita di voti del Partito comunista discendeva da una espressione di protesta contro il regime del momento; mentre chi non se la sentiva di votare comunista, votava, o diceva di votare, repubblicano.

Se si attribuisce a Rifondazione comunista una parziale funzione in questo senso, ecco che i voti che l’ex partito di Fausto Bertinotti raccoglieva in parte erano l’espressione politica di un estremismo di sinistra che trovava nel voto e non nelle armi la manifestazione della sua esasperazione, in parte il frutto della protesta di chi non voleva votare la reincarnazione del momento del Pci, ma non voleva votare l’alternativa di destra. Oggi quei voti li raccoglie Di Pietro ma non è questa una buona ragione per inseguirlo su quella strada. Sarebbe ripetere l’errore di Prodi, il quale almeno una motivazione l’aveva, quella di restare a palazzo Chigi. A riprova di questo, si guardi il totale dei voti della sinistra alle europee 2oo9 e alle politiche 2008: è rimasto più o meno lo stesso. Cercare di recuperare i voti di Di Pietro e di Bertinotti sarebbe puro suicidio. C’è chi ricorda che anche Francois Mitterrand, ai suoi tempi, si buttò a sinistra per consolidare la propria base. Ma quelli erano tempi in cui le signore della borghesia milanese parlavano in salotto di rivoluzione, e ogni tanto i figli le prendevano anche sul serio, andavano ai cortei e poi volavano a Londra a comprare un pied a terre con i soldi che il marito faceva arrivare dalla Svizzera. Ma ora i cortei non sono più di moda e è rimasta solo la casa a Londra.

Non si deve poi dimenticare che il Pd è una costruzione artificiale, che ha messo assieme, con una operazione a tavolino, due partiti dalla storia e dall’anima profondamente diverse, i Ds, ex comunisti, e la Margherita, dove un forte peso è esercitato dalla componente popolare, cioè cattolica. La divaricazione è forte perché è genetica. Vero è che anche la fusione tra Forza Italia e An ha le stesse caratteristiche, ma c’è una fondamentale differenza: che An nasce Msi, e il Msi, espressione politica del fascismo italiano in età repubblicana, era il lebbroso della politica, unico partito di un certo peso isolato dall’arco costituzionale, che comprendeva tutti, o quasi, tranne loro, fino a quando il genio di Berlusconi li ha portati fuori dalle fogne e da reietti li ha fatti ministri. Almeno fino a quando sarà vivo Berlusconi, questo, gli ex uomini di An, non lo potranno dimenticare.

Dall’altra parte, invece, convivono due ex partiti che di quell’arco costituzionale facevano parte con piena dignità, si considerano l’uno superiore all’altro, guardano l’altro con un fondo di sospetto: soprattutto rispondono a due nuclei base di elettori molto diversi nella storia, che li ha visti anche ferocemente contrapposti, e nella cultura. E gli elettori della ex Margherita nulla hanno a che spartire con quelli di Rifondazione, in nessuna delle sue componenti di voto, e nemmeno con quelli di Di Pietro. E il fatto che l’Udc non solo non sia stata obliterata, come forse volevano sia Berlusconi sia Franceschini, ma anzi sia sempre più viva e sempre più lotti in mezzo a loro, o contro di loro, dovrebbe preoccupare i dirigenti del Partito democratico molto di più di un ex poliziotto, ex pm con il megafono.