Elezioni europee. Il parlamento che non conta, un voto che conta: non in Europa, ma in Italia

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 31 Maggio 2009 - 07:54| Aggiornato il 17 Settembre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Dov’è finita l’Europa?

Non la si trova da nessuna parte.

Almeno in questa campagna elettorale è sparita completamente. E non soltanto perché il tormentone del “Casoriagate” sia stato talmente assorbente da oscurare perfino il rinnovo del Parlamento europeo. Ma per il fatto che agli italiani, ed ancor più alla classe politica, dell’Europa non frega assolutamente nulla.

Una volta assodato che siamo tutti “europeisti”, che la nostra frontiera è l’unità politica, economica e culturale del Vecchio Continente, che da esso non si può prescindere se si vuole essere politicamente corretti, il resto non conta. E nel resto, naturalmente, ci sono anche le istituzioni rappresentative nelle quali dovrebbero convergere i giudizi, le aspirazioni, le volontà degli europei.

Ma chi si recherà a votare sabato e domenica prossimi lo farà pensando alle ricadute politiche romane, non alla composizione delle assemblee di Strasburgo e di Bruxelles. Metterà la scheda nell’urna nella certezza di votare pro o contro Berlusconi, di assolverlo o di condannarlo, di esaltarlo o scalfirne l’immagine.

Un referendum, insomma, che non riguarderà, naturalmente, soltanto il presidente del Consiglio, ma anche il nuovo parolaio ferrarese, al secolo Dario Franceschini; il giustizialista Di Pietro; l’eterno centrista Casini; il tonico, sempre più tonico Bossi; e perfino i rossastri cespugli in attesa di un qualche strapuntino. Con tanti saluti all’Europa, al suo enfatizzato ruolo da protagonista sullo scacchiere mondiale, alle sue ambizioni (sempre frustrate) di grande potenza.

Del resto, come dare torto ai tanti scettici? Se il Parlamento europeo, senza voler assolutamente minimizzare, è quel pletorico organismo nel quale si discute fino all’esasperazione della curvatura dei cetrioli e della lunghezza dei fagiolini, della quantità di burro o di margarina nella cioccolata, degli ingredienti della pizza e dell’affidabilità della mozzarella; se è quel consesso che non fila nessuno quando accadono eventi di sconvolgente portata e se le sue decisioni non vengono tenute in nessun conto dai parlamenti nazionali poiché tutto viene deciso in un’altra sede, vale a dire la Commissione europea; se è quell’assemblea popolata di trombati nelle elezioni nazionali e di comodo riposo per coloro che stanno finendo la carriera o, ancor peggio, una sorta di “cattiverio” per quanti diventano ingombranti per i rispettivi governi (vedi il caso del ministro della Giustizia francese Rachida Dati, entrata in rotta di collisione con Sarkozy e da questi spedita appunto al Parlamento europeo), allora si spiega di disinteresse, la lontananza, perfino il disgusto degli elettori che ogni cinque anni sono chiamati a questo inutile rito.

Rito che, naturalmente, potrebbe non essere inutile se l’Europa esistesse davvero come entità politica e non soltanto economica.

Guardate cosa ha fatto la signora Merkel: per un pugno di voti ha svenduto la prospettiva strategica della creazione di una grande industria automobilistica europea.

E guardate cosa fanno gli inglesi, sempre pronti a dare lezioni a tutti: si guardano bene dal sostenere sforzi comunitari poiché il loro orizzonte è l’altra sponda dell’Atlantico.

Per non dire della Francia, sempre in bilico tra un europeismo peloso che non intacchi il suo vetero-nazionalismo ed un europeismo da usare per bilanciare altre presenze nell’Africa dove conta interessi molto cospicui, al punto di intervenire in quasi tutte le crisi che scuotono il Continente.

Bisognerebbe fare, dunque, prima l’Europa e poi le istituzioni rappresentative. Tra queste ce n’è una, la più antica, che quest’anno festeggia il sessantesimo compleanno: il Consiglio d’Europa.

Dovrebbe occuparsi prevalentemente di diritti umani: cerca anche di farlo, con dispendio di considerevoli risorse economiche (l’Italia è tra i primi cinque contribuenti su quarantasette Paesi che ne fanno parte), ma delle sue risoluzioni, dei molti documenti che produce, delle posizioni che assume non si ha neppure notizia nei parlamenti nazionali.

E allora, votare per l’Europa? Ma no, chiamiamo le cose con il loro nome. E diciamo che la finzione è utile perché proiettata ad altri scopi. Fino a quando le classi dirigenti europee, che non sono fatte di Spaak, di De Gasperi, di Adenauer, di Monnet, di Schuman e non hanno ideologi del calibro di un Richard Coudenhove-Kalergi, non si renderanno conto che l’Europa è davvero il nostro destino e si regoleranno di conseguenza, l’elezione del Parlamento europeo sarà poco più di una farsa.

La retorica in questi casi non aiuta. La verità, forse.