Fiat, Chrysler, Opel e le logiche politiche di Obama e Merkel. Una lezione per tutti, una per Marchionne e una per la sinistra italiana

di Marco Benedetto
Pubblicato il 30 Maggio 2009 - 12:35| Aggiornato il 17 Settembre 2010 OLTRE 6 MESI FA

La nasata battuta dalla Fiat in Germania insegna parecchie cose.

Primo. I politici sono tutti uguali. Siano più folkloristici e variopinti come i nostri, siano più compunti e compassati come i tedeschi o gli inglesi, di destra come Sarkozy o di sinistra come Obama, sempre politici sono. Se per un musicista il fine ultimo della vita è mettere in fila delle buone note o per un contabile dei numeri che quadrino, per un politico, ridotto all’essenziale, è mettere in fila tanti consensi da perpetuarne la poltrona. Questo naturalmente vale anche per i dittatori, che possono infierire su piccole minoranze di dissidenti ma nulla possono fare senza il consenso diffuso, di massa.

Obama ha favorito Fiat nell’ingresso in Chrysler, perché il partner italiano avrebbe tagliato meno posti di lavoro della più naturale e logica scelta americana. Lo stesso ha fatto la Merkel, sacrificando l’interesse strategico dell’industria europea al calcolo elettorale, cosa che, nei prossimi anni, tutta l’Europa pagherà. Ma si vota, lei è già un po’ traballante, non si possono correre rischi.

Secondo. Marchionne solo alla fine ha capito il pantano in cui era finito. Ma la vicenda tedesca non “è una lotteria”, come Marchionne tardivamente ha detto per coprire la ritirata; è una situazione chiaramente prevedibile, basta non avere le lenti che si sono tinte rosa dopo una serie di straordinari successi. Ma come quei successi, non ultimo quello americano, avevano delle precise razionali spiegazioni, così questa sconfitta aveva una precisa logica, non industriale, ma politica, che non si poteva non prevedere.

Terzo. I sindacati italiani, e anche il partito democratico, ci hanno fatto una figura non certo brillante, con un appoggio incondizionato alla Fiat frutto di superficialità e distrazione.
A parte il ministro Scajola, che, fiutata l’aria, da buon vecchio democristiano ha intuito i rischi sull’occupazione e ha messo le mani avanti, a sinistra hanno messo in guardia contro i rischi solo Ferrero, di Rifondazione, e una parte dei sindacati, Flm e cobas, che però non godono di buona reputazione per l’estremismo del passato, i primi, e che, i secondi, non hanno perso l’occasione, con la violenza, per spostare il tema dalla sostanza al modo, colpa imperdonabile nel paese di mons. Dellacasa.

Forse è il caso che, pur con ritardo, la sinistra si svegli e faccia la sua parte. Non è ancora troppo tardi, anzi, è più urgente che mai. Infatti, se c’erano rischi per l’occupazione col piano Opel, questi rimangono anche con l’operazione Chrysler. I tagli occupazionali di marca Opel erano infatti tagli ben individuabili a tavolino, con una logica industriale dalla quale poteva venire solo del bene, in prospettiva (questo non esonerava il sindacato dal suo ruolo negoziale, ma tant’è).

Invece, ora che Fiat è rimasta sola con Chrysler, il disegno strategico mondiale di Marchionne resta tronco. Se Marchionne non sostituirà il tassello Opel con un’altra casa europea (si era parlato di Peugeot) e non integrerà il tutto con un pezzo in America Latina, il solo asse Torino-Detroit può rivelarsi un sogno fallace come altri sogni di espansione coloniale che hanno tormentato nell’ultimo secolo la storia d’Italia.
Ricordiamo che con Chrysler, in un eccesso di hubris personale e aziendale, simile a quello che sembra avere preso Marchionne, la ben più forte Mercedes stava per lasciarci le penne, e comunque ha lasciato sul campo più di dieci miliardi di dollari.

Vero è che il dollaro oggi vale meno di allora, ma sempre miliardi sono. Ed è anche vero, ci si può scommettere, e si tratta di una delle scommesse più facili da vincere, che quando un’azienda è in difficoltà, i primi a pagare sono i lavoratori, col loro posto di lavoro.