Fini e il tempo del diluvio

Pubblicato il 9 Novembre 2010 - 14:28 OLTRE 6 MESI FA
“Questo Governo è giunto al capolinea. E il ‘signori si scende’ riguarda tutti, ma proprio tutti, macchinista compreso”. Chi è l’autore della citazione? Non certo Gianfranco Fini, come potrebbero pensare i lettori più giovani che non hanno memoria della “prima repubblica”. Si tratta invece di Claudio Martelli e del benservito che l’allora vicesegretario socialista spedì a Ciriaco De Mita, ponendo fine alla sua presidenza del consiglio. Era il maggio 1989, il PSI celebrava alle ex officine Ansaldo di Milano quello che sarebbe stato il suo ultimo vero congresso. E nessuno dei protagonisti di quelle giornate poteva immaginare che di lì a pochi mesi lo scenario politico italiano e internazionale sarebbe cambiato per sempre e per tutti.
Gianfranco Fini non è evidentemente Claudio Martelli, né Futuro e Libertà può essere messa a confronto con il Psi degli anni di Craxi. Eppure il coraggio e la determinazione con cui Fini sta incalzando Berlusconi sulla gestione del governo e sulla cultura politica del centrodestra si accompagna ad un rischio concreto. Quello di ripetere in condizioni storiche del tutto diverse un rito caratteristico della prima repubblica e in particolare delle sue componenti più dinamiche. Così come Craxi volle giocare sempre il ruolo di ago della bilancia delle coalizioni di governo, senza mettere mai in discussione gli equilibri politici più generali su cui si fondava il Pentapartito, Fini sembra predisporsi ad un lavoro di condizionamento del berlusconismo con l’obiettivo di diventare l’elemento determinante dell’alleanza di governo. D’altra parte, così come il PSI di Craxi incarnava l’anima più innovatrice del Pentapartito, oggi FLI rivendica alla luce del sole i contenuti di maggiore apertura e tolleranza con cui vorrebbe contaminare il centrodestra italiano. Si tratta dunque di un legittimo traguardo, che solo ad un occhio malevolo potrebbe suggerire una similitudine tra il Fini del 2010 e il Craxi-Ghino di Tacco che negli anni Ottanta avocava per sé una rendita di posizione alla quale tutti gli alleati di governo avrebbero dovuto pagare pegno.
Eppure la legittimità della sfida finiana deve fare i conti con l’ambiguità della richiesta di un “Berlusconi bis”, venuta dallo stesso Fini a Perugia. Perché la violenza della sua critica al berlusconismo, tutta incentrata sui contenuti del liberalismo europeo, mal si concilia con l’auspicio che lo stesso Berlusconi possa essere il timoniere di quell’innovazione politica del centrodestra italiano che sotto la sua guida poteva essere ma che evidentemente non è stata. Se n’è accorto, tra gli altri, un osservatore esterno mai prevenuto sui fatti di casa nostra: Guy Dinmore, corrispondente per il Financial Times, che nella sua cronaca del discorso di Perugia ha scritto di “un’ancora di salvezza per il Cavaliere” e della “offerta venuta da Fini a Berlusconi per un’uscita dalla crisi politica, con la proposta di un suo ritorno alla guida del governo sulla base di una coalizione rinnovata e di un nuovo programma”.
Gianfranco Fini avrà i suoi buoni motivi politici per una navigazione tanto accorta e per evitare di dichiarare chiusa la stagione berlusconiana una volta per tutte, con le conseguenze del caso. Eppure è forte la sensazione che in questa scelta vi sia anche la percezione di avere di fronte a sé un tempo politico infinito, come pensavano i protagonisti del maggio 1989 prima del diluvio che avrebbe chiuso la prima repubblica. Uno di questi, Gianni De Michelis, presentando qualche giorno fa il bel libro di Marco Gervasoni “Storia d’Italia negli anni Ottanta” ha spiegato che l’errore più grande del suo gruppo dirigente fu quello di “pensare di avere molto più tempo di fronte a sé”. Sono parole su cui dovrebbero meditare coloro che oggi si candidano a sostituire Berlusconi sul lungo periodo, perché non è affatto scontato che il tempo a loro disposizione sia tanto abbondante prima che gli equilibri della “seconda repubblica” collassino sotto il peso dell’immobilismo.


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