Gas naturale e crisi energetica: Europa è debole, ltalia ancor più, Putin o non Putin

Pubblicato il 13 Luglio 2009 - 21:01| Aggiornato il 14 Luglio 2009 OLTRE 6 MESI FA

La situazione dell’approvvigionamento del gas naturale per l’Italia è piuttosto complessa: non induca in errore la relativa tranquillità mostrata dal nostro Governo in occasione dell’ultima crisi russo-ucraina, quella di gennaio – febbraio,  determinata esclusivamente dal crollo dei consumi dovuti alla crisi economica mondiale. In condizioni di domanda normali – che speriamo tornino presto perché vuol dire che avremo superato la crisi – il sistema gas italiano sarebbe a rischio anche senza blocchi dalla Russia e questo nonostante gli otto miliardi in più di metri cubi di gas all’anno del rigassificatore al largo del delta del Po (di cui peraltro viene in continuazione posticipata l’entrata in funzione).

L’incidente accaduto a metà gennaio 2009, della nave che ha tranciato uno dei tubi che portano in Italia il gas dell’Algeria, denunciato su internet dal Quotidiano Energia di Diego Gavagnin, ha ridotto di un quinto l’afflusso dal nostro principale fornitore in contemporanea con la crisi russo-ucraina, dimostrando che la ridondanza dei gasdotti potrebbe non bastare o essere economicamente insostenibile. Sono necessarie infatti anche importanti strutture di stoccaggio geologico di gas naturale sia per la riserva strategica (ora solo di 20 giorni per l’Italia), sia per la modulazione estate-inverno. Tra l’altro il gas d’estate costa molto meno (essendo a zero i consumi per riscaldamento) e può molto vantaggiosamente essere rimesso in vendita nella stagione fredda, con un effetto calmierante sui prezzi nei periodi di maggiore tensione.

Attenzione però, gli stoccaggi geologici non sostituiscono i rigassificatori, né viceversa. Si tratta di tecnologie complementari che permettono l’ottimale utilizzo di tutte le infrastrutture. Il ciclo di arrivo del metano liquefatto e della sua rigassificazione, ad esempio, deve essere costante nel tempo per tenere l’impianto sempre alla massima produttività; non può servire per la modulazione, compito degli stoccaggi (ne va della redditività dell’impianto e dell’economictà del prezzo, in concorrenza con il gas da gasdotto). Il ruolo principale della rigassificazione è che permette la creazione di mercati spot, il cui prezzo si contrappone a quello dei contratti pluriennali.

E cosa non va negli stoccaggi italiani ? Intanto che, come i tubi, sono pochi, e poi che tutti soffrono dell’effetto “palloncino”. Al contrario di quelli degli altri paesi europei, basati su una pluralità di soluzioni geologiche, gli stoccaggi italiani sono di un solo tipo: depositi sabbiosi esauriti. Come quando si lascia libero un palloncino di sgonfiarsi dell’aria pompatagli dentro, la velocità di uscita rallenta con il passare del tempo; allo stesso modo nei giacimenti di questo tipo verso la fine dell’inverno un grandissimo quantitativo di gas resta intrappolato nel contenitore. Lo stoccaggio geologico di gas che la legge destina a riserva strategica ammonta oggi a circa 5 miliardi di metri cubi pari a 20 giorni di vita del nostro paese (rispetto ai circa 85 miliardi i consumi complessivi nel 2008 del paese!). Nella crisi gas causata da un improvviso ritorno di freddo nel marzo del 2005 fu necessario utilizzare oltre un miliardo della scorta strategica e nell’inverno successivo un miliardo e mezzo. In quell’occasione fu anche necessario abbassare la pressione di tutti i gasdotti perché quella di risalita dagli stoccaggi geologici era scesa ad un punto tale che il gas non riusciva più ad entrare nei tubi. Nessun geologo o reservoir engineer oggi in Italia è quindi in grado di dire quanto di questi 5 miliardi di gas sia effettivamente recuperabile. Eppure la soluzione c’è ed è a portata di mano. Si tratta di realizzare nuovi stoccaggi in contesti geologici, come gli acquiferi profondi (solo in Francia sono presenti per 11.72 mld mc a fronte di 0 mld mc italiani e ne servirebbero almeno 10 mld mc! Fonte: Nomisma Energia), che permettono il totale recupero del gas immagazzinato a velocità costante di risalita. E’ il caso del proposto stoccaggio da 3 miliardi di metri cubi di Rivara, vicino a Modena, dove a 2.500 metri metri di profondità si trova una cupola di roccia impermeabile piena di acqua non potabile. La sommità della cupola è in grado di “sigillare” il gas metano, stoccabile con semplicità e prelevabile con altrattanta facilità grazie alla spinta dal basso della stessa acqua.

Con poche eccezioni le forze politiche locali di opposizione e maggioranza sono schierate contro il progetto, fortemente voluto al livello nazionale da entrambi gli schieramenti: in un tipicissimo effetto Nimby (“not in my backyard”), che vede in prima fila i politici e la stampa locale. Nella popolazione è sincera la preoccupazione per il rischio sismico e di fuoriuscita gas, anche se tutte le ricerche e gli studi dimostrano che gli effetti della pressurizzazione del gas sarebbero pressoché nulli sulla meccanica delle rocce e che i frequenti piccoli fenomeni tellurici della zona avvengono comunemente a ben maggiori profondità, e non sono in grado di incidere sul corretto funzionamento dell’impianto o sulla salute umana. Nella zona insistono poi numerosi altri giacimenti di petrolio, gas e stoccaggi tradizionali che mai hanno avuto problemi da quando è nata, proprio in Val Padana, l’industria petrolifera italiana.

In caso di necessità lo stoccaggio di Rivara potrebbe erogare al paese 30 milioni di metri cubi (mc) al giorno costantemente per qualche settimana, mentre gli stoccaggi tradizionali declinano rapidamente e non sono mai in grado di dare gli stessi quantitativi per più giorni consecutivi senza rimbocchi, impossibili nelle fasi di maggior erogazione. Si calcola che a fine inverno, in condizioni economiche normali ma di forte freddo, la domanda potrebbe raggiungere i 450 milioni di mc/ giorno, mentre l’offerta superebbe di poco i 400 (425 con Rovigo a pieno regime). In tal caso il sistema potrebbe reggere solo staccando i grandi clienti industriali e obbligando le centrali elettriche a passare dal gas al petrolio. Nel 2006 questa operazione è costata agli italiani 150 milioni di euro di maggiori costi certificati, più una cifra probabilmente analoga per l’effetto che la crisi ebbe su tutti gli altri prezzi energetici correlati. Come si vede il sistema è a rischio, Putin o non Putin; se poi ci si mettono anche le navi a tranciare i gasdotti sottomarini……

In ogni caso la lite tra russi e ucraini sul gas ha riportato alla ribalta la debolezza europea sul fronte degli approvvigionamenti. Ma, contrariamente a quanto comunemente si pensa, la debolezza europea non è di politica internazionale verso i due contendenti, ma di carenza delle infrastrutture.

La scelta politica l’Europa l’ha fatta più di 10 anni fa, scegliendo di creare un mercato unico dell’energia. Siamo invece ancora a tanti mercati quanti sono gli Stati dell’Unione. Per difendere gli operatori dominanti locali non si sono fatti nei tempi dovuti i necessari gasdotti e non si sono potenziati gli esistenti, mentre i consumi crescevano. L’idea prevalente è che alla sicurezza debba pensare l’operatore nazionale, e questi ha interesse a far coincidere la domanda con l’offerta, realizzando solo le infrastrutture strettamente necessarie a questo obiettivo. Così i produttori e gli importatori, senza concorrenza, possono tenere alti i prezzi di vendita.

I Paesi più colpiti dalle ricorrenti crisi Mosca-Kiev sono ovviamente quelli più dipendenti dal gas russo che transita su territorio ucraino, soprattutto chi è più vicino al confine. Tra questi, sul lato Sud dell’Europa, Romania (che consuma però molta produzione propria), Bulgaria e Grecia. Ebbene, se fosse stato realizzato nei tempi dovuti il gasdotto tra l’Italia e la Grecia, infrastruttura definita prioritaria dalla Commissione europea da più di 10 anni, il gas avrebbe potuto affluire da Algeria e Libia, attraversare Sicilia, Calabria e Puglia e risalire verso Grecia e Bulgaria, che già pagano il gas ai prezzi internazionali.

Analogamente se fosse stato realizzato il gasdotto dall’Algeria alla Sardegna e da qui alla Toscana, il gas algerino avrebbe potuto risalire la Valpadana e andare in soccorso di Austria e Repubblica Ceca. Naturalmente l’attività di trasporto avrebbe avuto una remunerazione a tutto vantaggio dell’operatore nazionale italiano.

Tutto questo sarebbe possibile se, come avviene normalmente, le infrastrutture di trasporto del gas fossero costruite tenendo conto degli aumenti di consumo su periodi congrui e non “metro cubo per metro cubo”. Ma forte è il timore – certo non nei consumatori – che un eccesso di offerta faccia crollare i prezzi. Al contrario, la ridondanza della capacità di trasporto permette invece di coprire i picchi di domanda laddove si manifestino in giro per l’Europa.