La liberazione di Vagni: perché non dirci come è davvero andata?

Pubblicato il 14 Luglio 2009 - 00:38| Aggiornato il 13 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Che Berlusconi non ci faccia sapere con chi lo fa, perché lo fa e quante volte e in che posizione lo fa è una cosa grave, perché priva della indispensabile trasparenza il rapporto tra il capo di un Governo e i suoi cittadini. Non a caso una volta i re lo facevano davanti a tutti.

Che però il ministro degli Esteri ci tratti da scemi a me personalmente dà ancora più fastidio, perché priva della necessaria trasparenza il rapporto tra un Governo e i suoi cittadini su una materia meno divertente e intrigante delle abitudini sessuali, ma forse un po’ più importante, che è quella di cosa fa questo tale Governo per tutelare i suoi cittadini in giro per il mondo.

Subito dopo che è stato liberato Eugenio Vagni, sabato sera, il ministro degli esteri italiano Franco Frattini si è affrettato a dire che non erasto stato fatto alcun blitz da parte dei militari né era  stato pagato alcun riscatto. La preoccupazione del ministro è più che legittima, perché già gli italiani sono considerati quelli che pagano sempre e non era certo il caso di rafforzare una reputazione che mette a rischio grave chi viaggia o lavora in certe zone del mondo; in più il nostro ministro degli Esteri ha già sul suo conto il mancato intervento per liberare i marinai italiani catturati la vigilia di Pasqua dai pirati somali e tutt’ora nelle loro mani e quindi vantare la mancanza di azione militare dava se non altro prova di ferma coerenza.

Conta relativamente poco che nel caso di Vagni l’intervento l’avrebbero dovuto fare i filippini, mentre nel caso degli ostaggi dei pirati sarebbe toccato ai nostri militari; e in questo secondo caso probabilmente resterà un mistero per sempre, se sia stato il ministro a dare copertura alla poca voglia dei militari di rischiare un intervento notturno in mare aperto o se siano stati i militari a inventare e fare scrivere da loro portavoce storie molto poco credibili per coprire la volontà politica del ministro di non rischiare. Il risultato di tutto ciò è che si è lasciata incattivire la situazione oltre il punto di non ritorno. Ma questa è un’altra storia, che con il caso Vagni ha in comune solo l’atteggiamento, avrebbero detto una volta i camerati, panciafichista delle autorità italiane.

Non si può essere tutti contenti di come è finita la terribile esperienza di Eugenio Vagni. Ma questa gioia collettiva non può oscurare il problema della credibilità del ministero e del ministro degli Esteri e del suo rapporto con la verità. Rilette dopo un paio di giorni, le parole di Frattini di sabato sera sono meno chiare e “tranchant” di come apparissero a una prima lettura: quello dei filippini “è stato un lavoro paziente e capillare e i gruppi di sequestratori sono sentiti nella condizione di poterlo liberare senza mettere a repentaglio la sua incolumità”.

Ma perché, invece di una contorta frase così pretesca, il ministro non ha detto la verità, di cui nulla c’era da vergognarsi, vista la situazione? La verità è che i filippini, per un po’, hanno lasciato perdere, per evitare rogne con gli italiani. In fondo il prigioniero non era loro; gli italiani facessero quel che volevano: meglio morto di stenti in mano ai rapitori che ucciso in un conflitto a fuoco, magari anche da fuoco amico? Il problema è degli italiani e li si può anche capire.

Poi i ribelli estremisti islamici del gruppo Abu Sayyaf hanno alzato il tiro e hanno fatto unm attentato con bombe e morti a una chiesta cattolica. Ora i filippini erano colpiti due volte: nella fede prevalente e nel loro stesso sangue. Bisognava quindi agire. Lo hanno fatto dando prova di una intelligenza militare e poliziesca che certamente è favorito dalla relativamente bassa posizione occupata dai diritti umani nella gerrchia dei valori del paese. Ma lo hanno fatto e lo hanno fatto bene, dimostrando che tra il brutale attacco militare e l’apatia ci sono anche delle vie intermedie.

Hanno sbarcato un bel po’ di rinforzi militari a Jolo, l’isola dove si è svolto il dramma. La dichiarata intenzione era proprio quella di intensificare le operazioni militari per la liberazione di Vagni, con molta poca considerazione per i desideri ufficiali italiani; la notizia non viene dai dispacci segreti del ministero degli Esteri, ma dal sito internet dell’agenzia di stampa Ansa. Poi hanno stretto i freni, con rastrellamenti, controlli, posti di blocco. Così, per fatal combinazion, a un posto di blocco hanno beccato due delle mogli del capo di Abu Sayyaf, le quali avevano addosso denaro contante e telefonini, quanto bastava per incriminarle dell’attentato alla cattedrale del 5 luglio.

Era molto facile chiudere il cerchio. Il baratto era nelle cose. Le autorità filippine non hanno messo sul tavolo soldi, perché non ne avevano bisogno: avevano in mano una merce di scambio molto più preziosa, le mogli del capo. Così, mentre la morsa dei militari si faceva sempre più stretta, gli intermediari lavoravano e tutto è finito nel migliore dei modi.

Perché non raccontarci le cose come è presumibile siano andate? Non siamo abbastanza cresciuti per sentirlo?

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