Le elezioni in Iran, i rischi di Ahmadinejad, le speranze di Mousavi, l’alleanza tra la vecchia guardia e i riformisti

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 16 Giugno 2009 - 10:20| Aggiornato il 30 Settembre 2010 OLTRE 6 MESI FA

La contestata vittoria di Mahmoud Ahmadinejad apre in Iran una stagione di instabilità i cui esiti si stanno già manifestando con una violenza inimmaginabile alla vigilia del voto dovuta alla delusione dei giovani soprattutto, delle donne, ma anche degli intellettuali e della borghesia che avevano sperato fino all’ultimo in un esito diverso. Repressioni, minacce, arresti, morti. Le giovani generazioni ritenevano che l’apertura di una nuova stagione “rivoluzionaria”, segnata da riforme strutturali e dall’irruzione di elementi di democrazia potessero essere avviate da un leader che avevano riconosciuto in Mir Hossein Mousavi, invece hanno sperimentato come la macchina del terrore sia ancora ben oliata. Ricominciare daccapo non si può, dicono i manifestanti. È  necessario andare avanti sulla spinta di un moto popolare che sta contagiando perfino le aree più periferiche del Paese. Si è messo in moto un movimento di popolo che le forze di polizia di Khamenei difficilmente riusciranno ad arginare.

Quali potranno essere gli effetti di una rivolta che neppure i più pessimisti tra gli ayatollah prevedevano? Al momento nessuno è in grado di dirlo anche perché la “normalizzazione” non può prescindere dall’accettazione della richiesta di Mir Hossein Mussavi di annullare le elezioni. E questo la Guida Spirituale non può accettarlo essendosi già congratulato con Ahmadinejad per la vittoria ottenuta. Ma il vecchio erede di Khomeini non si nasconde che sarà difficile avvalorare l’impostura dal momento che essa è stata “svelata” da alcuni autorevoli esponenti del regime ancorché avversari del presidente.

A differenza di quattro anni fa, quando l’affermazione di Ahmadinejad, fino a quel momento sindaco di Teheran, fu nettissima sul concorrente Alì Akbar Hashemi Rafsanjani, questa volta la sconfitta di Moussavi non verrà digerita facilmente, come le proteste dimostrano, perché palesemente “pilotata” dal regime degli ayatollah i quali, probabilmente, viste le conseguenze, si stanno già pentendo di aver appoggiato un uomo che sta costruendo una sorta di sistema politico parallelo a quello del regime teocratico.

 

Ahmadinejad, sostanzialmente, è contro tutti. Se Khamenei non avesse tanto precipitosamente avallato la sua “vittoria”, la vicenda avrebbe preso forse un’altra piega. Il presidente, infatti, scontentando quasi tutti, perfino molti di coloro che lo avevano sostenuto nella precedente elezione, può contare su una sorta di “partito invisibile” del quale a Teheran tutti parlano, ma che nessuno riesce con chiarezza ad individuare per poterlo combattere adeguatamente. È un partito che si fonda su ricatti, corruzione, interessi privati che si mescolano a quelli pubblici, sulla violenza per costringere i più riottosi a non mettersi di traverso alla cricca che sta intorno ad Ahmadinejad ed è in grado di pilotare i voti quando occorre. Per quanto misterioso, si sa che può contare su quasi tutti i pasdaran, i basiji (la terribile milizia non inquadrata militarmente), i bazarì che lo sostengono finanziariamente, l’esercito dei poveri che vivono dell’elemosina del regime. I capi di questo partito sono Mohammed Alì Jafar (leader dei pasdaran), Hojattoleislam Taeb che comanda tredicimilioni e mezzo di basiji, l’ayatollah Masbah Yazdi.

Gli “invisibili” (come vengono chiamati) non hanno buoni rapporti con altri “conservatori” che pure hanno appoggiato Ahmadinejad, ma già se ne pentono: il presidente del Majlis (il Parlamento) Larijani, l’ex-ministro degli Esteri di Khomeini, Velayati consigliere di Khamenei per gli affari internazionali, lo stesso sindaco di Teheran Mohammad Bagher Qalibaf. Discorso a parte merita l’ex comandante dei pasdaran Moshen Rezai che il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione e la stessa Guida Spirituale Alì Khamenei hanno candidato contro Ahmadinejad per contenerne la vittoria, ma ha raccolto briciole: comunque può annoverarsi nello stesso fronte ideologico.

Al presidente si contrappongono in maniera frontale, appoggiando Mousavi, due ex-capi Repubblica islamica: Rafsanjani e soprattutto Mohammad Khatami, i quali l’altro giorno erano alla testa dell’imponente corteo a Teheran attaccato dai pasdaran. Una parte considerevole del clero, per la prima volta in trent’anni si è dissociato dalla Guida Spirituale ed in particolare religiosi autorevoli della città santa di Qom ha fatto sapere di non accettare il verdetto truccato. Khamenei, a questo punto, si barcamena, tanto che ha ricevuto Moussavi e gli ha chiesto di comportarsi secondo le leggi vigenti nel condurre la sua opposizione ad Ahmadinejad. È consapevole che la vecchia guardia khomeinista si sta saldando con coloro che invocano il rinnovamento. Sa anche che tra i giovani nessuno mette in discussione la rivoluzione islamica, né tantomeno ripudia il Corano, ma denuncia l’uso arbitrario, poliziesco e violento dell’applicazione della sharia. E pretende una ragionevole liberalizzazione dei costumi. Fino a qualche tempo fa sembrava impensabile ciò che sta accadendo, ma l'”onda verde” l’ha reso possibile trovando nei vecchi khomeinismi insperati alleati i quali temono che l’Iran affondi nella palude dell’ingovernabilità e della guerra civile permanente.

 

Quando a Khamenei ed al Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione è apparso chiaro, nel pomeriggio di venerdì, che stava profilandosi un testa a testa tra il presidente uscente ed il suo principale competitore, con un leggero vantaggio di questi, un brivido ha percorso il regime sciita che è corso ai ripari terrorizzando elettori, invadendo alcuni seggi della capitale e probabilmente di altre città, falsando lo scrutinio come coraggiosamente stanno sostenendo coloro che sono vicini a Moussavi. Il “New York Times” ha rivelato che una fonte interna al Ministero degli interni iraniano ha detto che “il governo preparava da settimane i brogli, ed era arrivato a rimuovere i propri dipendenti di dubbia fedeltà, facendone arrivare altri più compiacenti e ‘flessibili’ da ogni zona del Paese”.

Moussavi paventa apertamente l’insediarsi di una tirannia; sfida il regime fidando sulla sua nobiltà rivoluzionaria riconosciutagli da tutti essendo stato primo ministro di Khomeini per circa nove anni. E poi l’appoggio esplicito di Rafsanjani e Khatami, oltre che del vecchio apparato khomeinista votatosi, come s’è detto, al riformismo, fa di Moussavi un punto di riferimento morale in continuità con i principi che animarono il movimento di rinascita islamica sotto lo Scià, culminante nella proclamazione della Repubblica nel 1979.

La situazione è complicata dal fatto che l’Occidente non è rimasto a guardare. Si attendeva la discontinuità ed invece si è ritrovato davanti il solito copione. Obama, per dirne una, terrà ancora la mano tesa verso l’Iran? Il presidente americano ha sottovalutato il fanatismo di Ahmadinejad, ha oggettivamente incoraggiato l’islamismo (ben oltre le sue stese intenzioni) nel suo discorso al Cairo, non ha tenuto conto dell’asse che si è stabilito tra Teheran e Pyongyang, non ha capito che la minaccia nucleare che il presidente iraniano e Kim-Jong Il alleati rappresentano è reale ed a temerne gli sviluppi non è soltanto Israele. Obama, insomma, si è rivelato un po’ precipitoso, mentre gli oppositori ad Ahmadinejad, che hanno puntato su Moussavi, che hanno invocato una nuova rivoluzione, trent’anni dopo la prima, ma democratica e riformista, si auguravano che l’Occidente non li avrebbe lasciati soli.