Proteste in Tibet, arrestati 109 monaci. Fermati due giornalisti italiani

Pubblicato il 9 Marzo 2009 - 19:14 OLTRE 6 MESI FA

Alla vigilia del cinquantesimo anniversario della fallita rivolta contro Pechino, i tibetani tornano in piazza. Nella provincia occidentale di Qinghai decine di persone hanno protestato nella prefettura di Golog contro il fermo di un uomo a un posto di blocco delle forze dell’ordine cinesi.

Durante la manifestazione alcune bottiglie molotov sono state lanciate contro un’auto della polizia e un mezzo dei vigili del fuoco, senza causare vittime. Le esplosioni sono avvenute alle 2.00 ora locale poco dopo alcuni tafferugli fra dimostranti e agenti.

E intanto la polizia cinese ha prelevato centonove monaci tibetani per sottoporli a “rieducazione” politica. Lo scrive l’edizione online del Times, precisando che il “sequestro” dei 109 monaci del monastero di Lutsang, nella provincia di Qinhang, è solo una delle tante misure straordinarie adottate da Pechino per scongiurare eventuali disordini anti-cinesi. Fra i provvedimenti eccezionali, il divieto di ingresso ai visitatori stranieri, già scattato, in circa un quarto del territorio della Cina.

La polizia cinese ha anche fermato e rilasciato dopo tre ore due giornalisti italiani, uno dell’Ansa e l’altro di Sky Tg24, al confine con il Tibet. Lo ha detto uno dei fermati, il corrispondente di Sky Tg24 Gabriele Barbati. Barbati ha ribadito che lui e il collega non avevano violato alcuna legge cinese: “All’inizio hanno cercato di spaventarci – ha raccontato il giornalista – ma la nostra preoccupazione era soprattutto per il nostro autista. Ai locali la Polizia riserva sempre un trattamento ‘diverso’ rispetto agli stranieri. Per fortuna alla fine hanno rilasciato anche lui”.

Il presidente cinese, Hu Jintao, ha esortato in un discorso i leader della provincia a costruire una “grande muraglia” contro il separatismo. “Dobbiamo costruire una Grande muraglia nella nostra lotta contro il separatismo e per la salvaguardia dell’unità della madrepatria e trasformare la stabilità di base del Tibet in una sicurezza a lungo termine”, ha affermato in un messaggio televisivo Hu, che nel 1989 quando guidava il Partito comunista locale guidò una sanguinosa repressione in Tibet. La provincia himalayana – ha sostenuto – dovrebbe progredire verso “un rapido sviluppo economico” e garantire “sicurezza e stabilità sociale”.

In Tibet e nelle zone in cui le minoranze tibetane sono molto numerose, come nella prefettura di Golog, le misure di sicurezza sono state irrigidite in vista del 10 marzo, 50° anniversario della rivolta contro Pechino che portò alla fuga in India del Dalai Lama. Truppe aggiuntive sono state schierate alle frontiere, lungo le arterie principali, a Lhasa e nelle altre città più importanti.

In questo periodo ci sono altre due date che rivestono un’importanza particolare per i tibetani. Il 14 marzo è il primo anniversario dei moti di Lhasa nel corso dei quali, per la prima volta, giovani tibetani attaccarono gli immigrati cinesi. Il 28 marzo è invece il giorno in cui il governo di Pechino ha istituito una festa per celebrare la “liberazione (del Tibet) dalla schiavitù”, cioè la formalizzazione dell’inglobamento della regione nella Repubblica Popolare.

LG