Regionali, gente stufa dei politici non vota. Test allarme anche per Renzi

di Claudia Fusani
Pubblicato il 24 Novembre 2014 - 09:22 OLTRE 6 MESI FA
Regionali, gente stufa dei politici non vota. Test allarme anche per Renzi

Matteo Salvini è stato l’unico vincitore del test elettorale. La sinistra lo lascia padrone dei temi scottanti

ROMA – Hanno perso tutti nelle elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria di domenica 23 novembre 2014. Ha perso la politica che ha talmente deluso e imbrogliato (entrambe le regioni sono al voto anticipato causa inchieste giudiziarie) da non riuscire a portare alle urne ben più della metà degli aventi diritto (44,1% in Calabria; 37, 8 in Emilia Romagna).

Hanno perso, con pesi e conseguenze diverse, Pd, Forza Italia e Movimento Cinque stelle.

Ha vinto uno solo, la Lega di Salvini che in Emilia Romagna ha più che raddoppiato rispetto a Forza Italia e dimezzato i voti grillini anche solo rispetto a maggio. Cinque mesi fa. Eppure sembra un secolo. Ma è una vittoria con sembianze di una tigre di carta.

Hanno provato in tutti i modi a snobbare il voto del 23 novembre come “un mini test regionale senza alcuna valenza nazionale”. Ancora ieri, domenica, a urne aperte, il ministro Maria Elena Boschi sentenziava che

“per carità, guai a considerare il voto per il rinnovo dei consigli regionali in Calabria ed Emilia Romagna come un test nazionale”.

Un più saggio professor Prodi interveniva a modo suo avvisando:

“Se l’affluenza va sotto il 50 per cento, il problema è serio, molto serio”.

È precipitata sotto il 50%. Persino sotto la soglia minima psicologica del 40 per cento nella rossa Emilia Romagna, regione dove fino all’anno scorso le percentuali noi scendevano mai sotto il 70 per cento. È come se Bolt non riuscisse a qualificarsi nella finale dei 100 metri, o la Ferrari non riuscisse a completare il Gp di Imola. Traumi da cui o ti ripigli subito oppure segnano una svolta.

Il premier Matteo Renzi fa a modo suo. Intorno all’una di notte, con lo spoglio intorno al 15 per cento, affida il suo pensiero a un tweet:

“Male affluenza, bene risultati: 2-0 netto.4 regioni su 4 strappate alla dx in 9 mesi. Lega asfalta Forza Italia e Grillo. Pd sopra il 40%”.

Sarà questa nelle prossime ore e giorni la linea e il senso delle dichiarazioni di tutta la prima fila Pd. Ma quella del premier è un’analisi di parte. Che non aiuta, tra l’altro, la comprensione e dunque il superamento dei problemi. È un errore definire “male” quello che è stato un vero e proprio crollo dell’affluenza.

Che il Pd abbia vinto con un 2-0 netto è fuor di dubbio. Si tacciono però dettagli importanti.

Primo: la totale mancanza di competitor, dimostrata anche dalla diserzione alle urne, assenza di leader di cui è vittima soprattutto il centro destra.

Secondo: Stefano Bonaccini vince a mani basse con il 49,1% ma è politico nato e cresciuto non all’ombra di Renzi; Mario Oliverio sbanca la Calabria con il 61,3%, con un seguito di sette liste, tra cui Sel, ma è un cuperliano di ferro, forse bersaniano addirittura dalemiano. Insomma, un signore di 60 anni, con almeno quattro legislature alle spalle e che alle primarie surclassò il candidato renziano.

Da un punto di vista numerico è vero anche tutto il resto:

Pd oltre il 40 %;

quattro regioni su quattro al Pd in 9 mesi;

che la “Lega ha asfaltato Forza Italia e Cinque stelle” mandando la prima anche sotto il 10 per cento e umiliando i grillini, che a maggio erano in entrambe le regioni poco sopra o sotto il 20 per cento, fermandoli al 13% in Emilia (dove M5S è nato) schiacciandoli al 4 % in Calabria (19,5% a maggio).

Va completato il ragionamento dicendo che il 40 per cento è tra meno delle metà dei cittadini; e che delle quattro regioni solo una, la Calabria, era in quota centrodestra.

Quello che nel tweet Matteo Renzi non può e non vuole dire è come e perché tutti hanno perso. A cominciare da lui. E come cambia da stamani l’agenda politica del governo Renzi.

Non pagano i toni esasperati, talvolta offensivi, usati nelle ultime settimane contro i sindacati. Essere autorevoli non significa battere sempre i piedi e alzare la voce. Sul job’s act, al voto alla Camera mercoledì, sarebbe opportuno ad esempio non mettere la fiducia e provare a riallacciare il discorso con la minoranza dem ma anche con Landini e Camusso.

Un aiuto in questo senso a Renzi arriva dalla modesta prestazione di Ncd e Udc. In Calabria, roccaforte del partito di Alfano, il candidato Nino D’Ascola ha appena superato la soglia dell’8 per cento, quattro punti percentuali in meno rispetto a maggio. “Un successo” dicono dal quartier generale di Ncd bloccata a un misero due e qualcosa in Emilia Romagna. Certo, viste le premesse – Scopelliti tornato in Forza Italia con il suo ormai modesto bacino di voti e Gentile, l’altro ras calabrese incerto fino all’ultimo – è stato un miracolo.

Ma questi dati, visti su scala nazionale sono una netta messa in mora di Ncd nella squadra di governo. Alfano & c. hanno tre ministeri pesanti (Interno, Sanità, Infrastrutture), continueranno ad averli ma difficilmente potranno pesare nelle scelte del governo. Sempre meno, insomma, Sacconi potrà alzare la voce sul job’s act.

Ma il “problema” più grosso Renzi lo ha con Berlusconi, il socio del patto del Nazareno. Al Cavaliere è chiaro a questo punto che il ruolo di opposizione che supporta il governo non giova più. Gli tocca dare ragione a Fitto (ha già cominciato una decina di giorni fa) e a Brunetta.

Che succede allora sul grande tavolo delle riforme? Che fine fa la legge elettorale riveduta e corretta con premio alla lista e soglie di ingresso più basse? Certo, Renzi resta il più forte anche se il presidente di Forza Italia a febbraio termina i servizi sociali e prega ogni giorno che la Consulta faccia finalmente qualcosa in suo favore bocciando la legge Severino.

Ma il Nazareno e tutta la sua impalcatura esplicita ed implicita avrà bisogno di un nuovo tagliando dopo questo voto.

Faccenda ancora pià traumatica, nel centro destra, è il sorpasso di Salvini e della Lega (20 per cento per il candidato Alan Fabbri mentre Forza Italia è all’8 per cento).

A Renzi non parrebbe il vero che Salvini diventasse il leader del centro destra. E quindi il suo avversario. Un leghista, populista, xenofobo, nazionalista e lepenista: mai presupposto potrebbe essere migliore per issare i pali per la big tent del partito della Nazione. L’elettorato moderato, a cui vorrebbe far riferimento Berlusconi, non può andare bene il pur simpatico Salvini.

Al Cavaliere quindi non resta che fare l’inevitabile: tentare la riunificazione anche con Alfano. Il pontiere al lavoro è, al momento, il ministro Maurizio Lupi.

Giornata di resa dei conti anche per il Movimento Cinque stelle. Nell’Emilia che è stata la culla dei grillini, la regione dove per primi si sono strutturati e sono stati eletti, la cittadina-candidata Giulia Gibertoni s’è fermata al 13 per cento. Ha dato la colpa ai media che “non hanno dato spazio al voto”.

Ecco, questo schema qua è finito. O i Cinque stelle sono in grado di fare e proporre qualcosa, oppure sono destinati a scomparire. “Qualcosa” passa solo da scelte coerenti e propositive sui grandi temi del paese. Uno fra tutti, tra pochi mesi, riguarda l’elezione del Presidente della Repubblica. Test a cui però Berlusconi vuole e chiede di partecipare.

In effetti Renzi ha vinto in questa mini tornata elettorale. Mentre il paese gli leva fiducia. E perché alleati e avversari in campo sono acciaccati.