Rita Clementi/ La ricercatrice di Pavia è stata di parola, ha preso un aereo per andare a lavorare in un centro studi di Boston

Pubblicato il 2 Luglio 2009 - 19:39 OLTRE 6 MESI FA

Alla fine Rita Clementi, la ricercatrice precaria di Pavia che aveva scritto la lettera al presidente Napolitano per dirgli che avrebbe lasciato l’Italia, è stata di parola, è salita su di un volo low cost – via Londra per risparmiare, ci tiene a precisare – per arrivare a Boston e continuare a studiare l’origi­ne genetica di alcune forme di lin­foma maligno in un prestigioso centro di studi della città americana.

La sua decisione è stata irremovibile malgrado le sia arrivata, all’ultimo minuto, un’offerta da un prestigioso centro di Padova: «Ho dato la mia parola agli americani. Ora vediamo cosa succede. Non escludo un ritorno. Non è detto che non si possa collaborare tra Boston e Padova, d’altronde ricerca vuol dire collaborazione».

A Rita mancheranno molte cose dell’Italia, dalla famiglia alle bellezze paesaggistiche, ma sicuramente non le mancherà quell’ambiente universitario che descrive quasi come una mafia: «Il sistema antimeri­tocratico danneggia non solo il singolo ricercatore precario, ma soprattutto le persone che vivono in questa nazione» dichiara. Se le viene chiesto se si senta danneggiata, la Clementi è lapidaria, dice che non può rispondere per paura di ritorsioni, quasi che si trattasse appunto di un ambiente che ha a che fare con la mafia.

Intanto in un blog, sono stati pubblicati due verbali di concorsi in cui la dottoressa viene bocciata, ma la ricercatrice si difende :«Avete confrontato i curriculum dei candidati? E sono limpidi i concorsi in Italia?».

Nella lettera, la ricercatrice pavese aveva parlato di mancanza di meritocrazia e di fondi, di meccanismi di promozione di carriera legati all’albero genealogico o alla simpatia. Aveva subìto ricevuto delle critiche dall’Università di Pavia, ma lei dice di «aver detto solo la verità». Aveva anche scritto, sempre nella lettera indirizzata al presidente Napolitano: «Vado via con rab­bia, con la sensazione che la mia abnegazione e la mia dedi­zione non siano servite a nulla. Vado via con l’intento di chie­dere la cittadinanza dello Stato che vorrà ospitarmi, rinuncian­do ad essere italiana». Come lei, sono tra i tremila e i seimila quelli che “fuggono” dall’Italia per andare a fare ricerca in altri Paesi.