Sottoculturali, tanto beati e incoscienti

Pubblicato il 27 Luglio 2010 - 10:02 OLTRE 6 MESI FA






Forse Massimiliano
Panarari non lo sa, ma quello che ha scritto è un libro di sfrenata esaltazione
del berlusconismo. Non già del berlusconismo politico, quello che ci è stato
dato in sorte dall’ultimo quindicennio di storia nazionale in varie
incarnazioni: la versione liberista delle origini ormai lontane, quella più
ecumenica degli anni del rimbalzo, o quella di puro galleggiamento degli ultimi
tempi. No, il berlusconismo che si celebra (inconsapevolmente?) in queste
pagine è quello primigenio. Il brodo primordiale della grande mutazione
italiana poi incarnata dal Berlusconi politico. O, come forse direbbe Nichi
Vendola, il nido nel quale è stato covato l’uovo del serpente.

Di cosa
parliamo? Della trasformazione che dagli anni Ottanta ha intrecciato la
politica e la produzione televisiva in forme del tutto nuove. Perché se nei
decenni precedenti tv e politica si erano naturalmente parlate e reciprocamente
utilizzate, è solo dagli anni Ottanta che la politica scopre la scala del tutto
inedita assunta dalla dimensione tele-popolare. Con effetti importanti prima di
tutto sulla politica, come ci hanno raccontato numerosi studi e come tra gli
altri hanno sintetizzato Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini in un brillante volume
di qualche mese fa: “La popolarizzazione della cultura mediale riguarda in modo
cospicuo anche i contenuti della comunicazione e dell’informazione politica,
che diventano, alla pari di altri prodotti, oggetto di largo consumo e come
tali rispondono alla logica delle industrie mediali e della produzione di
cultura popolare” Con il risultato di produrre una “mediatizzazione della
politica, macrofenomeno che agisce come vero e proprio agente mutogeno per la
politica come è vissuta dai suoi attori e come viene rappresentata davanti al
pubblico degli elettori e dei cittadini”. (“Politica pop. Da Porta a Porta a
L’Isola dei Famosi”, il Mulino 2009, pp.181, 14,00).

Il
“macrofenomeno” descritto da Mazzoleni e Sfardini può piacere o non piacere, ma
è esattamente il mondo nel quale siamo tutti immersi da trent’anni a questa
parte. A Panarari non piace, ma per il momento non è questo che interessa. Quel
che invece è notevole di questo suo libro  (“L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip”,
Einaudi 2010, pp.145, 16,50) è il modo con il quale si traccia un filo di
continuità tutto politico tra la “rivoluzione televisiva” degli anni Ottanta e le
forme a noi contemporanee di reality, talk show e gossip. Tra quel tempo e il
nostro, spiega Panarari, il “rinnovato immaginario popolare” è stato raccontato
dalla televisione in forme che già contenevano in sé la grande traccia di un
disegno politico. Ovvero in forme finalmente corrispondenti alla realtà
italiana così come essa si rappresenta, e non come dovrebbe diventare secondo
un qualunque progetto pedagogico. Guardando ad esempio a “Drive In”, uno dei
programmi-simbolo degli anni Ottanta, Panarari spiega che si trattava di “una
trasmissione esemplarmente individualistica, tra il piacere solitario di
guardare ragazze maggiorate strette in abitini che scoppiavano e la voglia di
ridere sguaiatamente, senza sentirsi in colpa”. E dunque “stop a sensi di colpa
superflui”, scrive ancora Panarari, “il Super-Ego è mio e me lo gestisco io, e
via libera alla visione di qualunque prodotto televisivo mi aggradi”. Così come
qualche anno dopo, passando per “Non è la Rai” e approdando a prodotti dei
nostri giorni come “Amici” e le varie isole del “neorealitismo”, si ha a che
fare con “programmi vessillo della neo-Italia coatta (che) pullulano di mugugni,
ahò, grugniti, tutti pronunciati indistintamente in maniera molto assertiva,
quando non addirittura solenne, in barba agli antiquati e pedanti precetti
dell’Accademia della Crusca”. Una televisione, in conclusione, che “conferma
pervicacemente e senza sensi di colpa di non intrattenere alcun grado di
parentela, neppure alla lontana, con l’idea sorpassatissima della pedagogia di
massa”.

Quello che
Panarari racconta è un processo di profonda democratizzazione della
comunicazione televisiva italiana, lo stesso al quale Mazzoleni e Sfardini attribuiscono
l’etichetta più scientifica di “popolarizzazione della cultura mediale”. Un
processo il cui snodo fondamentale è la scomparsa della pedagogia, sostituita
da una rappresentazione non più colpevolizzante dei desideri degli italiani
così come essi sono realmente. Se pensiamo alla politica, ci viene in mente
qualcosa di analogo? Il berlusconismo, naturalmente. Che ha rivoluzionato la
nostra politica, tra l’altro, attraverso un unico imperativo rivolto agli italiani:
“Guardatevi allo specchio ed esultate. Perché siete finalmente autorizzati a
piacervi così come siete”. Più di ogni suo altro travestimento ideologico
liberista o arci-italiano, e al netto della vicenda personale del suo leader
carismatico, il berlusconismo è stato soprattutto un messaggio di esaltazione
anti-pedadogica della natura degli italiani. Che aveva in sé, al contempo, un
potenziale di emancipazione degli spiriti animali della nazione e uno di
conservazione dei suoi equilibri storici. Un potenziale che è rimasto tale, per
l’appunto, senza mai tradursi in un’opera di governo adeguata alle intenzioni
di partenza e senza lasciare alcuna eredità propriamente politica in grado di
sopravvivere al suo fondatore. Ma che nondimeno ha modificato una volta per
tutte il campo del confronto pubblico, rendendo obsoleta qualunque politica che
insista sui tasti della pedagogia e del “dover essere”.


Tutto questo
ha avuto la sua premessa nella grande trasformazione populista e democratica
della comunicazione televisiva, che Panarari racconta con acume. Salvo condire la
sua analisi con una sovrabbondanza di giudizi morali che rischiano di
sommergere il  lettore, suonando giustapposti
quasi artificialmente ad uno sguardo analitico ben più lucido. Tra un “colpo di
stato plutocratico e neoliberale” ordito nel corso degli anni Ottanta (da
chi?), un “episteme popolare cambiato drammaticamente in peggio” (signora mia,
che noia queste veline) e l’auspicio che “intellettuali onesti” si dedichino
finalmente a “inventare architetture simboliche alternative a quelle
vittoriose” (astenersi perditempo), si largheggia nell’uso di una categoria
come “egemonia culturale” che se pure ha avuto larghissima fortuna
giornalistica potrebbe essere serenamente consegnata agli archivi della nostra
memoria. Per concentrarsi con più soddisfazione nel racconto dei linguaggi e
dei desideri di un’Italia dove le mitiche “masse” non sono più, per nostra comune
fortuna, quelle di Antonio Gramsci e del suo tempo.


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