Torino/ Scrive a Blitz uno degli abitanti di corso Rosai 38: “Il muro è giusto, basta con la promiscuità e con le aberrazioni egualitarie”

Pubblicato il 14 Luglio 2009 - 20:19 OLTRE 6 MESI FA

Riceviamo come commento alla notizia uscita sui rapporti fra gli abitanti dei due stabili di corso Rosai 38 a Torino, un lungo commento a firma Gigi Borotti che pubblichiamo. L’autore ci siega perché a suo dire «Il muro è giusto».

«I condomini che vogliono il “muro” hanno il sacrosanto diritto a voler preservare l’integrità della loro proprietà dagli eventuali danni prodotti dai pargoli turbolenti confinanti e a voler difendere la propria tranquillità dalla loro molesta chiassosità. Abbiamo di fronte due categorie di soggetti assolutamente incompatibili: da una parte ci sono famiglie che hanno fatto sacrifici nella vita per potersi comprare un appartamento e dall’altra parte abbiamo i privilegiati che l’hanno avuto gratuitamente grazie all’assistenzialismo comunale».

Il problema, secondo Borotti, sarebbe anche legato al fatto che gli appartamenti sarebbero «assolutamente identici a quelli di coloro che per averli invece li hanno dovuti acquistare; logico che questa gente si senta anche beffata: case uguali sia per chi le ha pagate e per chi le ha avute “aggratis” in nome di un “egualitarismo” assurdo e mortificante per chi è costretto a subirlo». Continua l’inquilino che appartiene a quelli che hanno comprato: «Qui non si tratta né di “razzismo” né di “apartheid” ma legittima autotutela e per rendersene conto basta visitare un qualsiasi quartiere di edilizia popolare per constatare come gli assegnatari degli alloggi “curano” la manutenzione: aiuole distrutte, ascensori scassati, marciapiedi malridotti, campanelli guasti,spazi comuni in condizioni pietose, per non dire dei parenti “abusivi” che alcuni si portano in casa».«Quelli che l’appartamento se lo sono comprato – continua Borotti – vanno perciò capiti nel voler imporre una separazione fisica tra le due proprietà: questa è l’unica soluzione ragionevolmente applicabile senza fare torto a nessuno, giacché ognuno degli appartenenti ai due schieramenti se ne sta a casa sua, fra i suoi simili ed i bambini più esagitati potranno far cagnara sotto le finestre delle proprie abitazioni ed eventualmente danneggiare i propri spazi comuni e non quelli degli altri».

«D’altronde già dalla foto pubblicata da vari giornali si può vedere tre di questi scalmanati arrampicati come scimmie alla rete metallica nell’atteggiamento di volerla scavalcare a rischio peraltro della loro incolumità. Per i loro genitori evidentemente va tutto bene». L’uomo racconta come già nel paese del sud in cui viveva da piccolo, veniva praticato un certo “separazionismo” tra bambini e nessuno si sconvolgeva per questo. La cosa avveniva anche a scuola: «Se a scuola avevamo un compagno “rompiballe”, i genitori chiedevano alla Maestra di farci cambiare banco e a noi di non “contaminarci” facendoci vedere con quello per non essere accomunato a lui e ricevere un brutto voto in condotta da parte della Maestra. Così era e nessuno trovava nulla da ridire, il “separazionismo” era una consuetudine e come tale veniva accettato senza fisime. Io ed i miei amichetti per esempio ce ne stavamo nel nostro cortile e non andavamo mai a giocare in quello confinante che chiamavamo il cortile dei “bastasi”, così detti perché sguaiati, scurrili e rissosi; diversi di loro a scuola frequentavano le classi “differenziali” o di “aggiornamento” (per i “caratteriali” e gli “asini ripetenti”) che poi purtroppo sono state abolite quando ha cominciato a soffiare il vento dell’egualitarismo sessantottino, con la conseguenza oggi tali soggetti vengono “spalmati” in tutte le classi dove recano disturbo e creano problemi».

Gigi Borotti conclude il suo lungo commento in questo modo: «Ma ora per fortuna si comincia a dire basta con le “aberrazioni egualitarie” di chi pretende di voler di imporre con la forza anche a chi non è d’accordo i propri principi “livellatori” attentando così alle libertà individuali di chi vuole esercitare il proprio diritto a non voler subire l’imposizione della promiscuità e della socializzazione coatta in nome di quella libertà che andrebbe così interpretata in un solo senso».