Un libro da leggere: troppa diseguaglianza fa male al capitale

di Lucio Fero
Pubblicato il 16 Marzo 2009 - 17:42| Aggiornato il 20 Febbraio 2013 OLTRE 6 MESI FA

Un libro da leggere, cioè una doppia provocazione per un paese e per una classe dirigente che di leggere fanno solo finta. La prima provocazione è appunto l’invito, vorremmo poter dire il comando a leggere. La seconda, perfino più consistente è il testo consigliato, vorremmo dire prescritto: The spirit level. Why more equal societies almost always do better. Che tradotto vuol dire più o meno: Perchè le società che hanno maggior livello di eguaglianza interna vivono meglio. Così, a prima vista, quasi una bestemmia ideologica, un reperto del giurassico culturale, ancora con questa storia dell’eguaglianza? Appiattisce, mortifica il livello di vita, la qualità dell’esistenza, come si fa a dire che le migliora?

Lo si fa con tabelle, grafici e numeri: i paesi contemporanei ed ovccidentali dove la diseguaglianza è minore tra i gruppi sociali hanno meno reati, meno detenuti, meno malattie, meno depressi, meno infelici, meno gravidanze minorili e, il che non guasta, meno ignoranti. Attenti prima di sentir odor di socialismo stantio, gli autori sono gli inglesi Richard Wilkinson e Kate Pickett e al socialismo non ci pensano nemmeno. Non teorizzano, calcolano e dimostrano. Calcolano e dimostrano che, una volta soddisfatti i bisogni primari e anche raggiunta una elevata quota di consumi, fermarsi nell’accumulazione di reddito porta letteralmente salute. Non diventare tutti uguali economicamente, per carità. Ma smetterla di essere sempre più diseguali. Dove così si fa c’è meno obesità, minori affezioni cardiovascolari, vita media più lunga e vacanze più lunghe. Insomma si campa meglio perchè anche per la diseguaglianza economica vale che il troppo stroppia.

Si vive meglio in Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca, Belgio di quanto non avvenga negli Usa o in Portogallo o in Gran Bretagna dove la forbice della diseguaglianza è ampia ed aumenta. Lo attesta la Banca Mondiale, non i vecchi testi di Marx o gli Angelus del papa. Insomma e semplificando, il capitalismo è in grado di produrre una società ricca e benestante ma poi si mangia se stesso se non temperato da una qualche politica, ed etica, redistributiva. In fondo è già successo nella storia: il capitalismo industriale del primo novecento salvò se stesso, si sviluppò e divenne egemone anche culturalmente grazie al felice matrimonio con il welfare, lo Stato sociale.

La conclusione indirettamente suggerita dalle cifre più che dagli autori è che l’attuale grande crisi non può essere superata senza rivedere l’ampiezza del gap economico tra ceti sociali all’interno della stessa economia capitalistica. E l’Italia? Nell’ultimo ventennio ha ampliato il gap, scalando la classifica dei paesi ad alto tasso di ineguaglianza. Dopo il miracolo economico degli anni ’60 che portò l’intero paese o quasi fuori dalla miseria, gli anni ’90 e successivi sono stati quelli della massima diseguaglianza. Fino al punto da cominciare ad assottigliare le fila del ceto medio. Nessuno ha finora tradotto il libro in italiano, probabilmente non è un caso.