Mangiamo i nostri vestiti: come il poliestere inquina il mare (e il nostro cibo)

di Lorenzo Briotti
Pubblicato il 20 Ottobre 2018 - 08:00 OLTRE 6 MESI FA
lavatrici lavanderia

Mangiamo i nostri vestiti: come il poliestere inquina il mare (e il nostro cibo) (foto Ansa)

ROMA – Aggiungere capi nuovi al proprio guardaroba andando a fare shopping, a chi non piace? Possedere tanti abiti e di conseguenza lavarli spesso, ha però delle conseguenze gravi: parte dei tuoi abiti, infatti, finiscono letteralmente sulla tua tavola. 

La colpa è delle famigerate minuscole fibre di plastica che finiscono nella catena alimentare dopo essere state riversate dai vestiti realizzati con materiali sintetici come nylon, poliestere, elastam e acrilico.

Una volta uscite dalla nostra lavatrice, queste fibre finiscono infatti nei nostri fiumi e di conseguenza nei nostri oceani. Qui vengono mangiate involontariamente dai pesci e da altre creature marine come plancton, molluschi, acciughe, granchi, aragoste e cozze, finendo poi sulle nostre tavole da pranzo. La conferma della presenza arriva anche dai test effettuati su campioni di pesce nei principali supermercati britannici, scrive il Daily Mail che pubblica alcuni risultati di uno studio recente. 

La moda usa e getta comporta la produzione di sempre più capi sintetici ed economici: solo in Gran Bretagna, scrive ancora il Daily Mail, vengono acquistati il doppio degli abiti rispetto a dieci anni fa. In un rapporto del 2017, Greenpeace avverte che circa il 60 per cento degli abiti prodotti in questi anni contiene poliestere, la fibra dell’abbigliamento sintetico per eccellenza. Il consumo globale di queste fibre è letteralmente esploso: dal 2000 al 2016, l’uso del poliestere da parte dell’industria dell’abbigliamento è passato da 8,3 milioni a 21,3 milioni di tonnellate l’anno.

Le microfibre delle felpe e dell’abbigliamento sportivo in genere sono una delle cause più significative dell’inquinamento plastico nei nostri fiumi e nei nostri oceani. La Ellen MacArthur Foundation, associazione benefica creata dalla velista Ellen MacArthur e dalla stilista Stella McCartney, ha pubblicato un rapporto sulla portata del problema. Lo studio si riferisce all’anno scorso e conclude dicendo che la situazione è così grave che ci stiamo “mangiando i nostri abiti”.

Il problema dei rifiuti plastici è noto a tutti. Chiunque vada in spiaggia trova montagne di bottiglie di plastica, imballaggi ed altri oggetti trascinati dalle maree marine. Oltre a questa plastica esistono però le microplastiche: quelle secondarie sono i minuscoli frammenti che si ottengono dalla frammentazione di questi oggetti di plastica più grandi; quelle primarie sono invece le microfibre dei nostri vestiti, che si stima costituiscano il 35% delle microplastiche totali degli oceani.

La Ellen MacArthur Foundation spiega che circa mezzo milione di tonnellate di queste microfibre inquinino i nostri oceani ogni anno, quantità che equivale a oltre 50 miliardi di bottiglie di plastica. E non finisce qui. La quantità di microfibre rilasciate nell’ambiente come risultato diretto del lavaggio dei tessuti potrebbe aumentare fino a 0,7 milioni di tonnellate all’anno entro il 2050: l’equivalente di scaricare 4 miliardi di magliette in poliestere in mare.

Si potrebbe obbiettare che esistono i depuratori che a qualcosa serviranno pure. E infatti alcune tra queste microplastiche vengono filtrate ma altre, a causa delle loro piccole dimensioni, finiscono comunque in mare. Greenpeace ha poi scoperto che l’utilizzo di ammorbidente ad ogni lavaggio riduce di circa un terzo il rilascio di queste micropalstiche primarie aprendo però ad un altro ordine di problemi: quello del rilascio di ulteriori sostanze chimiche dannose nei nostri corsi d’acqua. 

Almeno per ora, non esiste alcuna prova che suggerisca che il consumo di microplastiche ingerite dai pesci rappresenti un problema per la salute umana. Ma la ricerca degli effetti sull’uomo, conclude il Daily Mail, è ancora in una fase embrionale.