Che fine per il movimento operaio sul palco di Sanremo

Pubblicato il 21 Febbraio 2010 - 00:22 OLTRE 6 MESI FA

Che paese l’Italia, da vergognarsi. Da un anno tutti sapevano che gli operai della Fiat avrebbero pagato le ambizioni un po’ megalomani, degne di Tartarin di Tarascona, di Sergio Marchionne, ma nessuno ha mai detto nulla. I sindacalisti di medio livello si sono preoccupati di andare a calmare i colleghi americani della Chrysler, e dir loro quanto era umano Marchionne. I sindacalisti di alto livello, quei tre che rispondono al nome di Epifani, Bonanni e Angeletti sono andati all’Aquila a fare le tre scimmie dietro a Berlusconi, perché pensavano che il compito loro era fare politica, non occuparsi dei lavoratori.

Nessuno si è posto il problema di chiamare Marchionne, dirgli di aprire un tavolo, dare garanzie, spiegare cosa avrebbe fatto in caso di fallimento. Non sarebbe stato offensivo, visto che sul fronte della Chrysler è stato sul punto di schiantarsi un colosso come la Mercedes, che ha lasciato, sull’altare di un altro grande ammiraglio dell’auto mondiale, Jürgen Schrempp, qualcosa di più di dieci miliardi di dollari.

Ora che le cambiali cominciano a andare all’incasso e che gli stabilimenti più inutili, come quello siciliano di Termini Imerese, in assenza di significativi contributi pubblici, devono essere chiusi, qualcuno si sveglia. Poiché le azioni sindacali tradizionali portano a nulla, in quanto ormai la gente si è fatta furba e non ne può più di scioperi, cortei, ore perse nel traffico, qualcuno si è inventato la trovata di Sanremo, un biglietto che costa poco pagare, una piccola esibizione sul palco. Maurizio Costanzo pateticamente demagogico, inutilmente speranzoso, oltre che farneticante: difficile che “vincano anche gli operai in un momento di disagio”, hanno vinto qualche istante di visibilità, poi tutti torneranno a far gli affari loro, i loro traffici, qualcosa di inconfessabile perché no, e gli operai a sognare un posto in Regione a quattro volte lo stipendio della Fiat.

C’è poco da essere ottimisti per un paese dove le ultime speranze di un gruppo di lavoratori in lotta contro la propria inutilità sono affidate a un festival della canzone, davanti a un pubblico in gran parte di pensionati, magari di prepensionati, magari ex metalmeccanici ormai nel nirvana rabbioso e ringhioso della pensione, che li guardano con sereno distacco, sollevati che ormai per loro la storia è finita, la feroce, come chiamavano la Fiat i vecchi operai di Mirafiori, è un ricordo lontano.

Marco Benedetto