Draghi alla Bce, quale prezzo paga l’Italia, non solo orgoglio nazionale

Pubblicato il 18 Maggio 2011 - 20:02 OLTRE 6 MESI FA

La designazione di Mario Draghi alla Banca centrale europea non può che essere motivo di orgoglio nazionale. In una Europa in cui l’Italia è vista più come la Grecia che come l’Inghilterra e gli italiani sono visti attraverso l’immagine grottesca di Silvio Berlusconi, l’idea che un italiano vada al vertice di una istituzione europea di quella importanza non può che darci una boccata di ottimismo per il nostro futuro collettivo.

Per una serie di ragioni che sarebbe troppo lungo e complesso spiegare, che hanno radici nella nostra secolare miseria e inferiorità politica e internazionale, gli italiani sono visti nel mondo come una razza inferiore. Noi ci diciamo da soli che siamo i più simpatici e i più intelligenti, ritagliandoci un ruolo da pulcinella.

Già la propaganda virale fascista, in un’epoca in cui non c’era internet ma il passa parola funzionava egregiamente, aveva imboccato quella strada, contrapponendo spaghetti e baionette a cannoni e camion.

Dopo la guerra, cosa potevano fare i poveri maccaroni o magliari se non attaccarsi al malinconico sorriso del pagliaccio.

Nel mondo ci chiamano guidos (usa), il modello dell’italiano nei film stranieri è la caricatura di Troisi, mafioso è il minimo che ti capita di sentirti dire dopo avere visto l’unica produzione italiana che si manda all’estero con i soldi dello Stato.

Chi, libero dal mito dell’Italiano Uber Alles, avrebbe mai scommesso su Draghi alla Bce?

Un miracolo è stato quindi compiuto. E qui si manifesta ancora una volta il rischio di un auto inganno collettivo. Nessuno infatti si chiede come sia stato possibile che, essendo partiti da posizioni del tutto negative degli altri paesi europei che contano, cioè Francia e soprattutto Germania, si sia arrivati alla designazione di un italiano.

Non volendo ammettere nessuno, per ragioni di schieramento a sinistra, per ragioni di imbarazzo a destra, che il miracolo lo ha fatto Berlusconi, finiremo per convincerci che Draghi diventerà presidente della Bce perché è un genio. Ora, senza volere togliere nulla ai grandissimi meriti anche internazionale di Draghi, è bene invece convincersi che la sua designazione è frutto del lavoro intenso, senza risparmio, di Berlusconi.

Purtroppo per noi, però, quel lavoro non si è limitato a pranzi, cene e barzellette. Se i tedeschi hanno ceduto, è stato perché si sono trovati isolati, di fronte allo schieramento francese. Il cambio di atteggiamento francese, che ha determinato quello tedesco, c’è da dubitare che sia avvenuto gratis. Sarkozy, se lo guardiamo un po’ bene, è ancor più ridicolo di Berlusconi e forse ancor più incapace. Ma è un politico di mestiere e conosce perfettamente le regole del baratto: io ti do l’ok per Draghi, tu che mi dai?

Berlusconi e Tremonti morivano dalla voglia di mandare Draghi alla Bce: Draghi era l’unica seria alternativa a un Berlusconi vivente come presidente del Consiglio e a Tremonti come successore di Berlusconi defunto.

Allora andate a rileggere le notizie del viaggio di Sarkozy a Roma il 26 aprile 2011 e vi rinfrescate la memoria: in cambio dell’appoggio a Draghi, Berlusconi ha mollato quattro cose fondamentali, di cui tre si sono potute dire senza troppa vergogna o quasi: mollare sulla guerra in Libia, nella tradizione dell’italiano traditore e di Berlusconi fedifrago; dare l’ok a Lactalis che si becca Parmalat, all’insegna che anche per Tremonti Parigi val bene una Messa; coprirsi di ridicolo sui clandestini, all’insegna di quel pressapochismo amministrativo che Berlusconi ha così pesantemente pagato domenica 15 maggio. Poi c’è la quarta, costata una ennesima figuraccia a Berlusconi e un’altra botta di voti persi: il rinnovo alla Francia dell’impegno nucleare, che per Sarkozy probabilmente non vuol dire solo grandeur, ma solidi interessi di schieramento politico.

Ne valeva la pena? Per Berlusconi e Tremonti certamente sì. Come ha detto Giovanni Sartori qualche sera fa a Porta a Porta, Berlusconi è bravissimo a agire nel proprio interesse, molto meno, per non dire punto, nell’interesse generale del paese.