Giovanni Valentini, analisi critica sul ruolo di Masi e sul futuro della Rai come tv pubblica. Ma è sempre più così anche la Bbc

Pubblicato il 31 Ottobre 2010 - 19:57 OLTRE 6 MESI FA

Giovanni Valentini è uno dei pochi giornalisti in Italia che scrive di tv, dal punto di vista politico e sociale, con competenza. Ha anche una rara prerogativa: di essere stato contro Berlusconi fin dagli esordi di Canale 5, quando ancora Retequattro stava corrodendo le basi della Mondadori portandola verso il fallimento. Contro il furibondo parere di altri che poi successivamente si convertirono alle sue tesi, Valentini da sempre sostenne il pericolo rappresentato da Silvio Berlusconi per i giornali e più in generale per la democrazia italiana.

Quando Valentini scrive, anche se non si è d’accordo, bisogna leggerlo con attenzione, come in questa recente puntata della sua rubrica  “Il sabato del villaggio”, che appare ogni settimana sul quotidiano la Repubblica.
Scrive Valentini: “C’è tutta la protervia e la disperazione di un potere in declino nella crisi che colpisce la Rai in questa stagione oscura della vita nazionale. Da sempre sismografo fedele dei movimenti tellurici che pervadono la politica italiana, l’azienda di viale Mazzini registra le onde d’urto che investono il sistema parlamentare e di riflesso quello mediatico. Dal caso Santoro al caso Saviano-Benigni, dal caso Antigua al più modesto caso Sanremo, emerge in tutta la sua evidenza un’incapacità gestionale dissimulata dietro l’opportunismo e la cortigianeria, di cui il direttore generale Mauro Masi è il protagonista (in)discusso e assoluto: lo documenta un deficit che, in mancanza di interventi rapidi, rischia di arrivare a 120 milioni per l’anno in corso e addirittura a 600 nel 2012″.
Con una visione prospettica tanto semplice quanto rara, Valentini osserva poi che ” la questione della Rai va oltre la figura e il comportamento di Masi. Né si può risolvere semplicemente con l’eventuale rimozione e avvicendamento del direttore generale. Riguarda l’assetto dell’azienda, il suo status giuridico, la sua “governance”, le sue fonti di finanziamento. E ancor prima e ancor più, il suo rapporto con la politica, la sua indipendenza e autonomia dal potere e in particolare dal governo”.

Qui Valentini si addentra in un terreno più scivoloso, dove perde un po’ l’orientamento, per poi ritrovarlo alla fine. Infatti quando vede un carattere negativo nel fatto che il vertice di viale Mazzini sia insediato dalla partitocrazia, di destra o di sinistra”, perde di vista uno dei punti di forza di una Rai pubblica che garantisce, come è stata condotta fino a oggi, sia la maggioranza sia l’opposizione perché non c’è nulla di male, in principio, nel fatto che “il presidente e il consiglio di amministrazione [siano] scelti in base a un criterio di lottizzazione; e [che] il direttore generale [sia] indicato dal ministero dell’Economia, in funzione di un legame d’appartenenza e di subalternità”; perché non è da quanto precede, che è postulato dalla regola democratica, che “la Rai continuerà a essere un carrozzone o magari un’alcova di Stato, geneticamente incapace di svolgere e offrire un autentico servizio pubblico”.  Infatti Valentini pone subito dopo il tema in termini corretti: “Il problema è di regole, di procedure, di responsabilità”.

La Rai, scrive con ragione e con chiarezza quasi lapalissiana Valentini “è sull’orlo del baratro” e “serve al più presto una svolta”. Questo però è un altro terreno scivoloso, perché la Rai si trova in una situazione quale non si è mai trovata, nemmeno ai tempi del Caf, quando Berlusconi riuscì a imporre la nomina di un direttore generale, Pasquarelli, che in nome dei risparmi diede una insperata boccata d’ossigeno alla non ancora Mediaset. Oggi Berlusconi ha perfezionato il sistema e la nomina di Masi ne è il paradigma, perché la sua missione è palese, quella di demolire pezzo a pezzo la Rai in nome del risparmio. Masi porta avanti la missione in modo egregio, non volendo riflettere su un banale fatto: che i conti della Rai non si risaneranno mai con tagli in termini di quantità di prodotto, ma con tagli in termini di costo unitario di prodotto.

Un esempio di questa cecità, inconsapevole o voluta, è stato di recente teorizzato da Agostino Saccà, quando ci spiegò che lui resistette alle richieste della suocera di Gianfranco Fini, acquistandole solo un quarto del pacchetto proposto: dalle sue parole appariva però evidente che anche il prezzo del quarto era appunto di un quarto della richiesta iniziale, e quindi la Rai aveva sì pagato di meno, ottenen do però anche di meno, in pari misura.

Valentini invece si conferma un inguaribile romantico quando sostiene che”quello che occorre per salvare la Rai è una riforma che l’affranchi dalla sudditanza alla politica, per metterla effettivamente al servizio dei cittadini e non dei partiti. Una riforma che – sul modello delle altre televisioni pubbliche europee, a cominciare dalla mitica Bbc inglese – costituisca una tv di Stato e non di regime. E infine, le assicuri – attraverso un canone d’abbonamento adeguato – una fonte di finanziamento sufficiente per sottrarsi alla schiavitù dell’audience, rapportando la struttura, l’organizzazione e le spese di funzionamento alle risorse disponibili”.

Qui ci sono due errori significativi. In tutti i paesi dove esiste una televisione pubblica, Inghilterra e Stati Uniti in testa, il conflitto tra governo e stazioni pubbliche è costante.  Di questi giorni è poi la polemica esplosa in Gran Bretagna sulle pressioni esercitate sul nuovo governo di destra guidato da David Cameron dal magnate Rupert Murdoch, proprietario di Sky, eroe della sinistra italiana in quanto arci nemico di Berlusconi ma in realtà di destra che più non si può. Murdoch vuole da Cameron quello che Berlusconi vuole da Masi: ridurre la tv pubblica al lumicino, asfissiandola sul fronte dei ricavi e paralizzandola col conseguente taglio dei costti.

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