“Aaron Alexis sentiva le voci”: Vittorio Zucconi su Repubbica

di Redazione Blitz
Pubblicato il 18 Settembre 2013 - 13:12 OLTRE 6 MESI FA
Aaron Alexis

Aaron Alexis

WASHINGTON – Aaron Alexis, il tecnico informatico della Hewlett Packard assunto a contratto dalla Marina americana, sentiva le voci. Aaron sentiva le voci e, quando le voci si erano fatte più aggressive, ha sparato, sparato e ucciso 13 persone all’interno del complesso sede della marina statunitense di Navy Yard a Washington. L’articolo di Vittorio Zucconi è stato pubblicato su Repubblica oggi 18 settembre. Blitz Quotidiano lo propone ai suoi lettori come Articolo del Giorno:

Sentiva le “voci” che gli sussurravano nella mente, Aaron che ha terrorizzato Washington. Gli parlavano sempre più insistenti, sempre più imperiose, fino a ordinargli di entrare nel comando della US Navy e scaricare su 12 innocenti il fucile Remington a pompa che si era da poco comperato.
Aveva chiesto aiuto, appena un mese fa, Aaron Alexis, il tecnico informatico della Hewlett Packard assunto a contratto dalla Marina americana e da poco trasferito in un albergo di Washington da commessi viaggiatori e residenti temporanei, il Residence Inn, quando le voci si erano fatte più aggressive, ma nessuno gli aveva dato retta.
Non gli amici, non i parenti a Brooklyn, e non poteva parlarne con i superiori, per non perdere quel rettangolino magnetico di plastica, il “badge”, con il quale è entrato lunedì mattina nel Centro di Comando e Controllo nell’Arsenale, edificio 197, per uccidersi, dopo avere ucciso. E far tacere per sempre quelle maledette voci.

Gli psichiatri che avrebbero subito riconosciuto i sintomi del suo disturbo, avrebbero probabilmente attribuito lo slittamento nell’abisso di questo gentile, timido, ragazzone afro alto un metro e ottantacinque, capace di estrema gentilezza e di collere furiose, alla PTDS, alla sindrome traumatica da combattimento, anche se Aaron in guerra non era mai stato.
La sua guerra privata era stata combattuta dentro di lui, non fuori, e il trauma che aveva segnato la sua sconfitta era scattato nella tarda mattinata dell’11 settembre 2001, quando era corso verso Manhattan, sfidando la corrente umana nel panico che fuggiva dall’isola, per dare una mano, per aiutare i soccorsi al World Trade Center.

Quei dodici civili, molti seduti nella caffetteria dell’Arsenale della Marina per l’ultimo caffè alle 8 prima di sprofondare nella routine dei loro uffici, sono forse altri morti da mettere sul conto del 9/11.

A modo suo, il ragazzone nato a New York 34 anni or sono, e sballottato fra Brooklyn, Seattle, Fort Worth, Washington, riservista per quattro anno dopo essere stato congedato per “trasgressioni disciplinari”, aveva cercato di combattere e di vincere la battaglia contro se stesso. Si era infatuato del buddhismo, della promessa di pace interiore che il Siddhartha Gautama promette ai discepoli.
Per avvicinare e carpire il segreto di quella riconciliazione con la vita si era fatto amico di Nutpisit Suthamtewakul, un thailandese proprietario di un ristorante che nel nome aveva il programma, «La Ciotola Felice», conosciuto nel tempio che aveva cominciato a frequentare. Aveva cercato di imparare il thai e praticare gli insegnamenti del Buddha, anche se, intervistato oggi, Nutpisit ammette che loro meditazioni finivano spesso in grande bevute di birra. Sempre Heineken, la sua preferita.
Ma qualche vocina già doveva bisbigliare nella testa di Aaron e non erano i suggerimenti della più mite, della meno militante delle grandi religioni. Periodicamente, accadevano piccoli incidenti, episodi che apparivano senza grande importanza, ma che oggi suonano come sintomi chiari. Era svelto con i pugni, sferrati sul naso dopo discussioni accese. Aveva sparato colpi contro il soffitto del suo appartamento in affitto a Fort Worth, nel Texas, convincendo la polizia texana, sempre molto tollerante con chi maneggia schioppi e pistole, che erano partiti accidentalmente.

A Seattle, aveva scaricato un’arma contro l’auto di un operaio che, disse lui, «gli aveva mancato di rispetto», «rispetto» essendo quello che più di ogni altra cosa un giovane afroamericano pretende e domanda. Eppure la Marina non aveva esitato a offrirgli un contratto attraverso la Hewlett Packard e a dargli quel pass, quel “badge” con il quale alle 8 del mattino è entrato, in una divisa paramilitare, con una borsa dove teneva i pezzi del suo fucile a pompa, cal.12. Altra prova, come fu il soldato Bradley Manning, che i criteri di selezione delle forze armate Usa, e di coloro che amministrano server, software e computer, stanno diventando molto approssimativi.
Alla fine, le voci lo hanno spinto verso i gabinetti dell’edificio, dove Aaron si è chiuso in una toilette, ha assemblato il Remington a pompa, il fucile possente reso celebre da dozzine di film e telefilm, è uscito su un balcone che sovrastava il terrazzo della caffetteria e ha sparato a volontà sugli avventori sotto, fino a quando, come voleva, polizia militare e agenti di Washington lo hanno ucciso senza che lui resistesse.

“Suicide by police” si chiama, suicidarsi attraverso il fuoco degli agenti, per chi non ha forza di farlo da solo. Sopra di lui hanno sbattuto pale di elicotteri per ore alla ricerca di fantomatici “commando” creati dal panico e dalla confusione, una capitale è precipitata nell’ansia, scuole e stadi sono stati chiusi e sgombrati, il presidente ha dovuto commentare, si sono mosse le solite, inutili discussioni sull’America a mano armata, chiedendosi come sia possibile che un uomo sofferente di gravi disturbi mentali possa attraversare un fiume, raggiungere la vicina Virginia e comperare un cannone portatile come il fucile a pompa cal. 12 con munizioni.

Mentre si sperperano miliardi per effimere operazione di sicurezza e per sequestrare bottigliette d’acqua negli aereoporti. Aaron Alexis, stragista, aveva ricevuto una decorazione al valore per la sua parte nella “Guerra al Terrorismo”.