“Quando e come ritirarsi dall’Afghanistan”: Bernardo Valli su Repubblica

Pubblicato il 25 Marzo 2012 - 12:03 OLTRE 6 MESI FA

KABUL – Quando e come ritirarsi dall‘Afghanistan: una decisione più che mai difficile, alla luce dei continui attacchi dei Talebani che solo ieri, 24 marzo, sono costati la vita al sergente italiano Michele Silvestri. 

A meno di due mesi dal vertice Nato di Chicago che dovrà decidere il futuro del conflitto – e del destino – dell’Afghanistan, Bernardo Valli spiega come si potrebbe uscire dal pantano afgano senza troppi danni, “e con il massimo di dingità”.

Scrive Valli su Repubblica: “L’obiettivo non è certo facile da raggiungere. Si tratta dilasciarsi alle spalle un governo di cui fidarsi e soprattutto nelle condizioni di sopravvivere. Barack Obama aveva previsto la partenza nel 2014. Ma l’afgano Karzai adesso ha fretta o finge di averla per calmare i suoi, dopo la strage di Kandahar compiuta da un sergente americano”.

Karzai, scrive Valli, “vorrebbe anticipare la data all’estate dell’anno prossimo. Perlomeno lo dice. Esige anzitutto ad alta voce che gli americani cessino al più presto di promuovere azioni armate e restino nelle loro caserme. Soprattutto niente incursioni notturne che terrorizzano la popolazione”.

Ma ad oggi nulla è stato deciso. “Gli americani, che hanno novantamila uomini sui centotrentamila dell’Isaf (International Security Assistance Force), sono stretti trai nemici talebani e gli alleati afgani. I primi virtuali interlocutori ostili, i secondi interlocutori ufficiali infidi. Così i soldati sul campo (come capitava al bersagliere della Garibaldi colpito a morte e ai suoi cinque compagni feriti) devono difendersi dalle aggressioni dei talebani ma anche diffidare degli alleati, che hanno armato e addestrato. Né hanno l’aperto sostegno della popolazione, stretta dalla morsa della guerra civile, che li considera degli occupanti, di religione e lingua diverse”.

Il problema non è vincere o meno il conflitto, ma uscirne, “con dignità e senza eccessivi danni. Non era e non è una missione da poco. Chi la compie sul terreno merita tutto il nostro rispetto”.

“L’attacco all’avamposto italiano nella provincia occidentale di Farah potrebbe anche essere stata una reazione locale ai gravi episodi verificatisi di recente in altre regioni afgane. (…). Il fatto di sangue avvenuto vicino a Kandahar ha provocato la collera del paese, ha mandato all’aria i colloqui con i talebani che stavano per cominciare nel Qatar, e hanno costretto l’instabile presidente Karzai ad assumere posizioni intransigenti nei confronti dei protettori americani. Un vero disastro, perché Washington ha subito i colpi dell’alleato e ha perduto almeno per ora l’occasione di trattare con i nemici. Una doppia sconfitta”.

“La strage avvenuta, alcune domeniche fa, vicino a Kandahar (16 civili uccisi nel sonno, dei quali nove bambini) è stata attribuita dagli americani a un loro militare uscito di senno, insomma a un “incidente psichiatrico”, e non aun calcolato atto di ostilità contro la popolazione afgana. È stata l’azione isolata di un sergente di 38 anni, logorato dai lunghi e ripetuti soggiorni in Iraq e poi inAfghanistan, e colto da un raptus omicida che l’ha spinto in un villaggio non distante dal suo accampamento. (…). È tragico, ma capita. Le autorità americane hanno sostenuto questa tesi, battendosi il petto, hanno chiesto scusa, hanno impacchettato il sergente autore della strage e l’hanno rispedito negli Stati Uniti, dove sarà giudicato, verrà forse condannato a morte, o finirà la vita in un manicomio criminale”. 

“Ma gli afgani non condividono né la tesi, né le decisioni americane. Sostengono che la strage dei sedici innocenti è stata compiuta deliberatamente da più soldati e vogliono che il sergente omicida venga giudicato da un tribunale afgano, poiché il fatto è avvenuto sulloro territorio”.

“Gli americani inorridiscono all’idea che questo possa accadere a qualche loro soldato nel futuro. E comunque hanno messo il sergente assassino di Kandahar al sicuro, in patria”. 

“Ben più grave è stato giudicato il fatto che soldati americani abbiano appiccato il fuoco, abbiano bruciato ‘la parola di Dio’, cioè volumi del Corano, che circolavano in una prigione e che potevano contenere messaggi non proprio religiosi. La Casa Bianca si è scusata. Ma i mea culpa non sono serviti a molto. Rancori che non risparmiano i soldati addestrati e armati dagli istruttori occidentali della Nato. Di recente dei soldati afgani hanno ucciso i loro istruttori francesi”.

“Non tutti gli avvenimenti, nelle guerre, si distinguono per la loro razionalità. In quella afgana, dove insieme a tanti altri, da12004, sono morti cinquanta italiani, l’irrazionale raggiunge livelli insoliti, perla nostra epoca. Bravi i bersaglieri che in quella situazione assolvono comunque il loro compito”.