La maledizione del peronismo, Mimmo Candito sulla Stampa

di Redazione Blitz
Pubblicato il 3 Febbraio 2014 - 11:32 OLTRE 6 MESI FA
"La vida por Peron"

“La vida por Peron”

ROMA – “La maledizione del peronismo e la crisi eterna dell’Argentina” è il titolo dell’articolo di Mimmo Candito che Blitz quotidiano vi propone come articolo del giorno del 3 febbraio 2014:

Fa caldo a Buenos Aires, un caldo boia, con l’aria arsa che viene su dal Rio de la Plata e il sole che brucia rovente fino a sera. Mai, negli ultimi tempi, l’estate australe era stata così calda. E però anche mai, dalla crisi del 2001, l’Argentina s’era trovata addosso tanta angoscia e tanta paura quanta in questo mese ch’è appena finito. Il caldo dell’aria c’entra nulla, i portenós quello che temono è che la loro vita venga sbattuta nuovamente quindici anni all’indietro, in una spirale diabolica dove tutto crolla, i prezzi, il valore della moneta, le rate dei mutui, ogni loro speranza di vita.

Gennaio è stato un inferno di delusioni, in appena 30 giorni il peso ha ceduto quasi il 20% del proprio valore: se all’inizio dell’anno, per comprare un dollaro ci volevano un po’ meno di 7 pesos, l’altro ieri il cambio ufficiale ne voleva quasi 9. E la discesa va giù a strapiombo ogni giorno di più, perchè questo 20% di gennaio ha sullo sfondo la caduta del 38% dell’anno 2013: la spirale si avvita drammaticamente, i tempi della crisi si stringono fino a rischiare di strangolare non solo la macroeconomia ma anche le piccole abitudini del quotidiano, i consumi d’ogni giorno, la spesa al mercato, il cinema, l’auto.

Ci si sbatte contro già soltanto a passeggiare per Florida e Corrientes, perché lì, fino al quadrilatero degli affari di San Martìn e Rivadavia, sono riapparsi, puntuali come la sventura, gli arbolitos, i cambisti clandestini, con la tasche rigonfie di dollari e di pesos. Li chiamano così, gli «alberelli», dalla crisi tragica del tempo delle Malvinas, quando una dittatura ormai in agonia stava mandando allo sfascio il Paese, e l’inflazione toccava punte astronomiche del 5.000%, roba che i prezzi cambiavano non solo ogni giorno, ma addirittura anche due volte nello stesso giorno, seguendo il crollo dei pesos. E loro, che erano «alberelli» perchè stavano piantati fissi nell’angolo di strada che ciascuno s’era scelto, aspettavano pazienti i loro clienti per speculare nel cambio in mutazione continua, tra pesos e dollari.

Ma oggi come allora (e questa similitudine spiega amaramente la gravità della crisi attuale), per capire come va l’Argentina quello che conta non è il cambio ufficiale, ma il cambio nero che loro praticano con la gente che va a sussurrargli nell’orecchio «Y, ahora, cuánto?». Il «cuánto», ieri era sui 14 pesos, oggi è già un po’ di più.

Quando la vita d’ognuno viene stravolta tanto drammaticamente, le fratture che si creano nella società aprono la strada a giudizi politici che da ogni parte muovono alla identificazione delle responsabilità. E le differenziazioni sono inevitabilmente forti, nette. Non che in Argentina vada poi in modo diverso, e però poi, molto spesso, tra l’arbolito che sta all’angolo di calle San Martín e il potenziale «cliente» che gli sussurra all’orecchio, la differenziazione politica sta nelle sfumature più che nella diversità di fondo. È assai probabile che l’uno e l’altro si «sentano» peronisti.

Lo chiamano «peronismo sociologico», quella sorta di adesione indistinta ma comunque reale che la società argentina dà ai caratteri identitari del movimento politico che negli ultimi cinquant’anni ha inglobato e metabolizzato le componenti del dibattito nel Paese. Non che in Argentina non abbiano avuto vita e incidenza gruppi politici e tendenze ideologiche che si differenziavano decisamente dalle contaminazioni di cui è fatto il «giustizialismo» di Perón, c’è stato un partito comunista, i socialisti, i liberali di tradizione europea, i radicali soprattutto, e poi tutte le formazioni politico-militari del fascismo e della guerriglia rivoluzionaria; ma a tutti, il peronismo ha saputo contrapporre una indeterminatezza ideologica che gli ha consentito di raccogliere nel proprio spazio nazionalismo, socialismo, sindacalismo, anche una «terza via» economica, fondendo questi distinti apporti in un programma populista che offriva partecipazione e misure ampie di welfare in cambio di consenso.

Il populismo politico ha trovato nella storia di un’America Latina ancora ampiamente rurale il suo più forte radicamento, anche per le forme che l’eredità del colonialismo iberico ha impresso alle società locali (autoritarismo militare e linea netta di frattura tra potentati latifondisti e classi popolari); e di ogni populismo latinoamericano, il peronismo è stato il catalizzatore e l’interprete più efficace, guadagnandosi la sua ascesa con la straordinaria capacità d’intervento d’una economia sociale resa possibile dalle ricchezze accumulate negli anni della II guerra mondiale, quando le granaglie delle sterminate coltivazioni argentine e la carne delle sue mandrie della pampa coprivano le richieste d’un mercato internazionale in crisi per la guerra. Diceva Perón: «Abbiamo tanto oro nei depositi del Banco Centrale che non ci bastano i forzieri e dobbiamo ammonticchiare i lingotti nel suo corridoio».

Poi, naturalmente, i lingotti non bastarono più, e una prima crisi travolse il governo di Perón. Ma la sua stessa indeterminatezza ideologica – ci sono un peronismo di sinistra e uno di destra – e la natura della società argentina, gli hanno consentito sempre una sorprendente capacità di sopravvivenza. Diceva Perón: «Gli argentini sono al 30% socialisti, al 20% conservatori, e al 30% radicali»; e quando gli chiedevi: «Ma, e i peronisti?», lui sorrideva: «Gli argentini sono tutti peronisti».