“L’hanno ucciso due volte”: Giampaolo Pansa su Luigi Calabresi

Pubblicato il 27 Marzo 2012 - 12:52 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Blitz quotidiano vi propone oggi come articolo del giorno quello di Giampaolo Pansa per Libero, dal titolo “L’hanno ucciso due volte”, in riferimento a Luigi Calabresi, commissario di polizia ucciso il 17 maggio del 1972. “Da due anni vivo sotto questa tempesta. Lei non può immaginare che cosa ho passato e che cosa sto passando. Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio non saprei come resistere…”, raccontava Calabresi.

“Llo avevo incontrato nell’ufficio di Antonino Allegra, il capo della sezione politica della questura milanese. Eravamo all’inizio del 1972, lavoravo da inviato della Stampa a Milano. E dalla strage di piazza Fontana in poi, scrivevo di continuo su quella folle stagione di bombe, di morti, di linciaggi. Domandai a Calabresi se avesse paura. Lui rispose: «Paura no perché ho la coscienza tranquilla. Ma quel che mi fanno è terribile. Potrei farmi trasferire da Milano, però non voglio andarmene. Comunque non ho paura. Ogni mattina esco di casa e vado al lavoro sulla mia Cinquecento, senza pistola e senza la protezione di una scorta. Perché dovrei proteggermi? Sono un commissario di polizia e il mio compito è di proteggere gli altri, i cittadini». Ero convinto di non dover più scrivere su una storia vecchia di quarant’anni. Ma certe vicende non passano mai. Riemergono di continuo come fantasmi testardi che ti obbligano a guardarli in faccia di nuovo. Accade così per il mattatoio di piazza Fontana, che oggi ha ispirato un film di Mario Tullio Giordana, Romanzo di una strage, nelle sale dal 30 marzo. Il figlio del commissario, Mario Calabresi, direttore della Stampa, l’ha già visto. E ha osservato che nel film è sparita la campagna di linciaggio contro il padre. Fu un’aggressione schifosa, durata mesi e mesi. Un veleno cucinato e diffuso dalle teste d’uovo della sinistra italiana: il meglio del meglio della cultura, dell’accademia, del giornalismo, del cinema. Signore e signori che per anni ci hanno spacciato un mare di bugie. Forti di un’arroganza che quanti di loro sono ancora in vita seguitano a scagliarci addosso. Il linciaggio si fondava su una convinzione senza prove: il commissario Calabresi era il torturatore e l’assassino di Giuseppe Pinelli.

L’anarchico fermato la sera del 12 dicembre 1969 e morto tre sere dopo, cadendo da una finestra dell’ufficio politico della questura milanese. Il corpo di Pinelli non era ancora stato sepolto, quando su Calabresi cominciò a cadere una grandinata di falsità senza vergogna. Si disse che il commissario gli aveva inflitto un colpo mortale di karate, ma non c’era mai stato nessun colpo. Poi si sostenne Calabresi era un agente della Cia addestrato in America, ma lui non era mai andato negli Stati Uniti. Infine si raccontò che a Pinelli era stato iniettato il siero della verità, ma si trattava soltanto della flebo usata dai barellieri nella speranza di rianimare l’anarchico. Non era ancora niente rispetto alla tempesta che venne scatenata poco dopo. Oggi si parla spesso di macchine del fango a danno di politici o di big dell’economia. Ma sono scherzi goliardici rispetto a quella allestita contro Calabresi. Fu un congegno mostruoso, destinato a durare più di due anni. Per poi concludersi con l’as – sassinio.

Al contrario di quel che si crede, il primo passo non venne compiuto dal giornale di Lotta continua. Bensì da due quotidiani della sinistra storica: l’Avanti! del Psi e l’Unità del Pci, affiancati dal settimanale comunista Vie Nuove. Poi entrò in scena un pezzo da novanta: l’Espresso con la sua firma più famosa, Camilla Cederna. Subito dopo si mossero i lottacontinua di Adriano Sofri e da quel momento la vita del commissario diventò un inferno. Calabresi querelò Lotta continua, ma ricevette una replica brutale. Sofri & C. spiegarono che a loro non importava nulla del verdetto di un tribunale. Il proletariato avrebbe emesso la propria sentenza, per poi eseguirla in piazza: “Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati. Ma è questa, sicuramente, una tappa fondamentale dell’assalto dei proletari contro lo Stato assassino”. Nel frattempo, il commissario e la sua famiglia venivano inchiodati a una via crucis orrenda. Manifesti su tutti i muri di Milano e di molte città italiane gridavano: Calabresi wanted, ricercato, con l’indicazione della somma da saldare a chi l’avesse catturato. Promesse di morte urlate nei cortei: Calabresi sarai suicidato! Insulti carogna: il commissario Finestra, il commissario Cavalcioni. Vignette bestiali: Calabresi insegna alla figlia piccola come tagliare la testa alla bambola anarchica con una ghigliottina giocattolo. E poi una bufera di lettere anonime, spedite all’indirizzo di casa. Telefonate orrende. Centinaia di articoli per indicarlo al disprezzo e alla vendetta.

Calabresi era diventato l’ebreo di una truppa ideologica generata da un incrocio bastardo: il neocomunismo movimentista e una nevrosi persecutoria di impronta nazista. Nulla gli fu risparmiato. Quando lo promossero commissario capo, Milano venne tappezzata di nuovi manifesti che lo mostravano con le mani grondanti sangue. Lo slogan gridava: “Così lo Stato assassino premia i suoi sicari”. Ma il culmine dell’infamia fu toccato con la parata firmaiola che dilagò sulle pagine dell’Espresso per tre settimane, a partire dal 13 giugno 1971. Ben ottocento eccellenze di sinistra: filosofi, registi, scienziati, editori, storici, architetti, pittori, scrittori, politici, sindacalisti e un buon numero di giornalisti. Tutti in preda alla certezza che Calabresi fosse un torturatore e un omicida. Rileggere oggi quell’elenco mi provoca un disgusto profondo per chi l’ha sottoscritto. Mi ero ben guardato dal firmarlo, anche se le insistenze dei promotori mi pungolavano a farlo. Avevo scritto su piazza Fontana sin dal primo giorno. E in qualche modo rappresentavo la Stampa a Milano. Però mi ripugnava il ritratto che veniva dipinto di Calabresi. Lo ritenevo falso da cima a fondo. Inoltre volevo sottrarmi all’aria pessima che tirava a Milano. Era un’aria che puzzava di faziosità sfrenata, di furibondo partito preso, di certezze proclamate con il sangue agli occhi, di dubbi rifiutati con disprezzo. In quel clima, se non partecipavi al linciaggio di Calabresi una penale la pagavi.

Ti accusavano di schierarti con i fascisti, cercavi i favori della polizia, facevi un giornalismo prezzolato, stavi al servizio della Direzione affari riservati del Viminale. Un altro che, strano a dirsi, non firmò fu Adriano Sofri. Tanti anni dopo, nel libro La notte che Pinelli, pubblicato nel 2009 da Sellerio, spiegò la faccenda così: «Io non ero tra i firmatari. Nessuno me lo chiese, e con la boria e la faziosità di allora me ne sarei guardato. Era un testo molto duro e si pronunciava con indebita sicurezza». In calce a quel libro, con sottile perfidia, Sofri ha pubblicato l’elenco delle ottocento firme. Scorrerle una per una, ti induce a pensare che la “meglio gioventù” partorita dal Sessantotto aveva alle spalle il peggio del vippume di sinistra. Molte di quelle eccellenze sono scomparse, a cominciare da Norberto Bobbio per finire a Giorgio Bocca. Ma tanti big sono ancora in vita. E da ben poco venerati maestri seguitano a impartirci lezioni burbanzose. Qualche nome? Eugenio Scalfari, Umberto Eco, Dario Fo, Furio Colombo, Lucio Villari, Bernardo Bertolucci, Toni Negri, Dacia Maraini… Basta, mi fermo qui. Forse è vero che stiamo diventando un paese per vecchi, a cominciare da me. Ma un po’ di pudore non farebbe male a nessuno.