Roma, incendio del 64: fu Nerone o il gran caldo nelle botteghe del Celio?

Pubblicato il 15 Agosto 2013 - 09:44 OLTRE 6 MESI FA
Roma, incendio del 64: fu Nerone o il gran caldo nelle botteghe del Celio?

Roma, anno 64, il grande incendio

Uno degli eventi più controversi della storia, l’incendio d Roma sotto l’imperatore Nerone, si letteralmente sviluppava nella canicola estiva di quasi duemila anni fa. La ricorrenza non è proprio esatta. Avvenne il 18 luglio del 64, quindi siamo un  po’ in ritardo quanto al giorno e in anticipo quanto all’anno, ma le giornate di caldo atroce e la tregua del Ferragosto sono spunto sufficiente.

La ricostruzione su Wikipedia è stringata e imparziale:

“L’incendio scoppiò la notte del 18 luglio del 64 (ante diem XV Kalendas Augustas, anno DCCCXVII a.U.c.) nella zona del Circo Massimo e infuriò per nove giorni complessivamente, propagandosi in quasi tutta la città.

“Delle quattordici regioni (quartieri) che componevano la città, tre (la III, Iside e Serapis, attuale colle Oppio, la IX, Circo Massimo, e la X, Palatino) furono totalmente distrutte, mentre in altre sette si registrarono danni relativamente più limitati.

“I morti furono migliaia e circa duecentomila i senzatetto. Numerosi edifici pubblici e monumenti andarono distrutti, insieme con circa 4.000 insulae [condominî] e 132 domus [ville unifamiliari dei ricchi].

“Gli scavi condotti nelle aree maggiormente interessate dall’evento, hanno spesso incontrato strati di cenere e materiali combusti, quali evidenti tracce dell’incendio. In particolare sono stati rinvenuti, in alcuni casi, frammenti di arredi metallici parzialmente fusi, a riprova della violenza delle fiamme e delle elevatissime temperature raggiunte”.

Una ricostruzione molto suggestiva è in questi due video

Per gran parte dei quasi duemila anni che sono passati, la tesi universale che Nerone fece dare fuoco a Roma per  ricostruirla più bella e anche cantarne l’incendio come avrebbe fatto Omero davanti alle fiamme che distrussero Troia (dicono che avesse la passione del teatro e del canto); poi, per allontanare da sé l’accusa e placare i romani inferociti con un capro espiatorio, diede la colpa ai cristiani, dando il via alla prima di tante persecuzioni contro la nuova fede.

È abbastanza verosimile che si tratti di due ciclopiche sciocchezze, usate dai nemici politici di Nerone per diffamarlo nei secoli e dai cristiani, a posteriori, per dare una base abbastanza scenografica a quasi tre secoli di martirî.

Questo è il racconto di Tacito, freddo e distaccato cronista:

“Si verificò poi un disastro, non si sa se accidentale o per dolo dell’imperatore – gli storici infatti tramandano le due versioni – comunque il più grave ed atroce toccato alla città a causa di un incendio.

“Iniziò nella parte del circo contigua ai colli Palatino e Celio, dove il fuoco, scoppiato nelle botteghe piene di merci infiammabili, subito divampò, alimentato dal vento, e avvolse il circo in tutta la sua lunghezza.

“Non c’erano palazzi con recinti e protezioni o templi circondati da muri o altro che facesse da ostacolo.

“L’incendio invase, nella sua furia, dapprima il piano, poi risalì sulle alture per scendere ancora verso il basso, superando, nella devastazione, qualsiasi soccorso, per la fulmineità del flagello e perché vi si prestavano la città e i vicoli stretti e tortuosi e l’esistenza di enormi isolati, di cui era fatta la vecchia Roma.

“Si aggiungano le grida di donne atterrite, i vecchi smarriti e i bambini, e chi badava a sé e chi pensava agli altri e trascinava gli invalidi o li aspettava; e chi si precipita e chi indugia, in un intralcio generale.

“Spesso, mentre si guardavano alle spalle, erano investiti dal fuoco sui fianchi e di fronte, o, se alcuno riusciva a scampare in luoghi vicini, li trovava anch’essi in preda alle fiamme, e anche i posti che credevano lontani risultavano immersi nella stessa rovina. Nell’impossibilità, infine, di sapere da cosa fuggire e dove muovere, si riversano per le vie e si buttano sfiniti nei campi.

“Alcuni, per aver perso tutti i beni, senza più nulla per campare neanche un giorno, altri, per amore dei loro cari rimasti intrappolati nel fuoco, pur potendo salvarsi, preferirono morire.

“Nessuno osava lottare contro le fiamme per le ripetute minacce di molti che impedivano di spegnerle, e perché altri appiccavano apertamente il fuoco, gridando che questo era l’ordine ricevuto, sia per potere rapinare con maggiore libertà, sia che quell’ordine fosse reale”.

Subito tra la plebe di Roma, magari diffusa ad arte dai nemici dell’imperatore, montò la voce che era stato lo stesso Nerone a provocare l’incendio.

Tacito, nella traduzione di Andrea Nicolotti, racconta:

“Per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l’impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso.

“Perciò, da principio vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l’accusa dell’incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio.

“Perciò, benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo.”

Ora qualche considerazione.

Nerone, quali che fossero le sue depravazioni personali, era all’apice di un sistema di potere avviato un secolo prima da Giulio Cesare e poi consolidato da Augusto ed era un potere rivoluzionario, rispetto alla classe che aveva dominato e in parte ha continuato a fare fin dopo Romolo Augustolo, per oltre sette secoli a Roma: poche decine di famiglie, poche decine di senatori, vestiti di ipocrisia e di cinismo. L’impero aveva rappresentato la nascita di un contro potere, che aveva portato a emergere le classi inferiori e aveva affiancato ai senatori, nel controllo di un impero ormai quasi mondiale, anche i liberti, cioè schiavi appena affrancati dalla servitù.

Al fondo c’era poi il controllo dell’approvvigionamento del grano per il popolo di Roma, un gigantesco appalto di fronte a un popolazione di almeno un milione di abitanti. Tradizionalmente i nobili erano stati monopolisti, ma dopo la annessione dell’Egitto al demanio dell’Imperatore e non dello Stato, che era cosa loro, almeno un terzo della torta era sfuggito di mano alla classe senatoria.

Se si legge la storia con un occhio moderno, quanto precede spiega gli scontri  fra imperatore e senatori e spiega anche l’episodio dell’imperatore Caligola che nominò senatore il suo cavallo Incitatus: non era pazzia, ma sfregio.

La storia però ci è stata tramandata da appartenenti a quella stessa classe con cui l’Impero ha combattuto per un bel po’ e questo spiega, specialmente da parte dello storico Svetonio, tanto veleno.

A trascrivere quei testi furono poi buoni e devoti monaci cristiani, che non avevano motivo e strumenti per dubitare della parola di Svetonio e così il cerchio si chiude.

Un quadro della manipolazione degli storici si può trovare in questo articolo di Marta Sordi.

In realtà, a 30 anni dalla morte di Gesù Cristo, il cristianesimo non aveva ancora assunto le caratteristiche di una religione universale, ma costituiva una delle sette anche un po’ estreme che si erano sviluppate dal tronco della religione ebraica.

Vi si mescolavano, con posizioni politiche radicali, forme di religione molto ultra: gli apostoli venivano da un gruppo di sessuofobi che vestiva lino e non lana, considerando la lana da aborrire in quanto frutto di atti sessuali ancorché tra animali; questo spiega la vena sessuofobica che tormenta la Chiesa cattolica e il Cristianesimo in genere.

Il dato politico era di sicuro il più rilevante. Gli ebrei non gradivano l’occupazione militare romana. A dispetto del mito di civiltà, i romani erano gentaccia, praticavano la pulizia etnica con una intensità che fa impallidire i Serbi e i Croati dei giorni nostri. Le tasse che imponevano erano devastanti e i supplizi includevano, per i ribelli, la crocifissione, che infatti toccò anche a Gesù Cristo proprio in quanto accusato di essere leader rivoluzionario.

Come in tutti gli imperi multi etnici, nella capitale convergeva, in cerca di pane e magari qualcosa di più, gente da tutto il mondo. Guardate Londra o Parigi per capire. Gli ebrei all’epoca erano già in movimento ben prima della distruzione del tempio del 70 dc, c’è chi sostiene che in giro per il Medio Oriente, tra Egitto e Siria, ce ne fossero quattro volte quelli che risiedevano in Palestina.

In Palestina c’era il cuore della rivolta anti Romana: l’intifada, al tempo, la facevano gli ebrei, che al loro interno, come oggi i palestinesi, erano divisi e di brutto.

Le stesse tensioni si trasferirono a Roma: c’era sempre qualche tumulto da sedare. I romani, a Roma, non amavano gli ebrei; per una forma di contrappasso, oggi i più autentici romani sono proprio gli ebrei, che erano già, ben prima di Cristo, lì, sulla riva del Tevere dove oggi c’è un mega ufficio dei beni culturali,  a Trastevere.

Probabilmente fu proprio così, che Nerone, dovendo dare la colpa dell’incendio a qualcuno, pensò agli ebrei, tra i quali, altrettanto probabilmente, la nuova setta, quella dei seguaci di Cristo, si era diffusa come speranza di redenzione e di vita migliore. Gli ebrei, se si guarda la cartina di Roma, vivevano proprio dall’altra parte del Tevere rispetto alle zone bruciate.

Ma Nerone è verosimile che dei cristiani non sapesse nulla: erano dei fomentatori di disordini, litigavano sempre fra loro anche con violenza, tantò gli bastò.