Pro Marchionne. L’economista Penati: italiani ostili perché detestano il mercato

Pubblicato il 18 Settembre 2012 - 13:29 OLTRE 6 MESI FA
Star nel mondo, detestato in Italia: il caso Marchionne

ROMA – L’ostilità nazionale al Marchionne di Fabbrica Italia riflette il pregiudizio del Paese tutto verso il capitalismo di mercato? Lo pensa Bill Emmot che ne ha scritto poco tempo fa sull’Economist, è d’accordo con lui l’economista Alessandro Penati che ha scritto per La Repubblica del 17 settembre un editoriale che già dal titolo palesa significativamente il suo convincimento: “Perché difendo Marchionne”. La premessa è questa: americani, tedeschi, inglesi hanno tanta considerazione di Marchionne e dei suoi successi con l’operazione Chrysler, da non capire, fino al punto di esserne preoccupati, perché gli italiani invece lo accolgano con freddezza se non con risentimento. Una linea che accomuna destra e sinistra.

Emmot sospetta che “agli italiani non interessi veramente la crescita economica”. Penati, anche guardando alla crescita zero durante gli anni dell’euro, condivide: “L’Italia e la sua classe dirigente hanno un’opinione visceralmente negativa del capitalismo di mercato (unico punto su cui da Berlusconi alla Cgil, da Mediobanca alla Lega, vanno d’accordo) con le sue regole e le sue implicazioni”. Abbiamo accettato queste regole, prosegue il ragionamento, obtorto collo, ci siamo costretti, un po’ come uno che ha paura dell’aereo e che decide di volare in Australia: a metà del viaggio, preso dal panico,  inizia ad accusare il pilota.

Che c’entra Marchionne? Emmot e con lui Penati non capiscono come si possa mettere in discussione un manager che ha risanato un’azienda morente come la Fiat, creando valore per tutti gli azionisti, di controllo e risparmiatori (nella sua gestione la capitalizzazione è salita da 6 a 16 miliardi). Le performance in Borsa sono state eccellenti, al passo anche con Volswagen e i colossi tedeschi. Il punto, sottolineato da Penati, è che in Italia la Borsa è considerata “una bisca, inutile alla crescita delle aziende, tant’è che gli imprenditori italiani la rifuggono, tranne quando bisogna chiedere soldi ai risparmiatori per ridurre il debito di un gruppo in dissesto, mungere per ricapitalizzare le banche o fare altre operazioni di sistema”. Il modus operandi di imprenditori e banchieri che criticano Marchionne e che intanto mentre lui salvava la Fiat hanno distrutto, dal 2004 a oggi, il 40% del valore azionario.

Che c’entra Fabbrica Italia? Qui il discorso si fa più complicato, perché le alternative sono poche e dolorose. In Italia, come in Europa, si producono troppe auto, a fronte di una domanda scarsa. Inutile fare modelli nuovi, perché poi bisogna venderli convincendo i clienti a cambiare auto in un periodo di crisi e non a prezzo di sconto. Per competere serve aumentare la produttività degli stabilimenti destinandola verso settori che tirano. Quindi ristrutturazioni e riconversioni, flessibilità a spostare forza lavoro e risorse dai settori in crisi a quelli redditizi. Per questo, scrive Penati, “convocare Marchionne non serve”. Serve coraggio e autonomia da parte del governo per “considerare mobilità settoriale e geografica e la riqualificazione come la maggior tutela per i lavoratori.

“Marchionne ha messo il dito nella piaga” sostiene Emmot, denunciando il velleitarismo della classe dirigente italiana ad affrontare seriamente il nodo del recupero della produttività quale fattore di crescita, invece di inseguire fumose teorie palingenetiche del capitalismo italiano. Un consiglio Penati offre a Marchionne, perché non ne sia contagiato, come un po’ è successo: “Venda La Stampa e la partecipazione al Corriere. Così dimostrerebbe che tutti i settori in declino, non solo l’auto, non sono più strategici per il gruppo”.

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