Berlusconi. Contro di lui negata la storia: i tedeschi furono complici di Hitler

Pubblicato il 29 Aprile 2014 - 07:34 OLTRE 6 MESI FA
Berlusconi. Contro di lui negata la storia: i tedeschi furono complici di Hitler

Soldati tedeschi trucidarono migliaia di soldati italiani a Cefalonia. Ma Jean Claude Juncker sembra voler iniziare un nuovo negazionismo

ROMA – Mentre giornali stampati e online insistono nel dare ragione o torto a Berlusconi, che per una volta invece ragione ce l’ha, nella polemica sulla consapevolezza dei lager da parte dei tedeschi, basta andare in libreria e comprare il libro “I volenterosi carnefici di Hitler”, pubblicato nel 1997 dalla casa editrice dello stesso Berlusconi, la Mondadori, per acquisire qualche elemento in più. Nel libro, Daniel Jonah Goldhagen espone, documenti alla mano, le prove della partecipazione dei tedeschi “normali”, non iscritti al partito nazista, alla “soluzione finale”, allo sterminio degli ebrei.

Oppure, una ricerca su Google avrebbe portato a un articolo del Daily Telegraph del 2010 dove è evidente la partecipazione dei “normali” tedeschi alle aste dei beni rubati agli ebrei, per non parlare della burocrazia germanica, da cui deriva quella che oggi un po’ ci opprime e fa tanto infuriare l’impotente Berlusconi. Una studiosa tedesca, dell’Università di Monaco, vi demolisce il mito che

“i funzionari statali del ministero delle Finanze erano neutrali; la realtà era che le manifestazioni di antisemitismo erano fra quei burocrati fatti quotidiani”.

I funzionari del Fisco tedesco “scoprirono residenze e conti bancari” di ebrei “e li svuotarono” e poi fecero sparire tutte le tracce di quelli scomparsi nei campi di concentramento”.

Oppure un documento online sul genocidio degli ebrei in cui si riferisce che, secondo lo storico israeliano Saul Friedländer “la recente ricerca storica trasforma in modo crescente l’ignoranza da parte dei tedeschi del destino degli ebrei in un mito costruito nel dopoguerra”.

Per una singolare coincidenza, inoltre, proprio domenica 27, Corrado Stajano ha pubblicato sul Corriere della Sera un articolo che dovrebbe fare riflettere i nuovi negazionisti. L’articolo è sulla strage di Cefalonia, in cui furono trucidati migliaia di soldati italiani, uccisi dai militari regolari dell’esercito tedesco, nel 1943.

L’articolo di Corrado Stajano è da conservare:

“Più di settant’anni dopo pare di sentire ancora l’odore del sangue nel leggere il libro di Hermann Frank Meyer, Il massacro di Cefalonia (Gaspari). Si rimane sopraffatti da una nera cappa di violenza e di morte tra le pagine dolorose e angoscianti di questo saggio minuziosamente documentato che raccontando nudi fatti è un terribile grido contro la guerra e la sua follia.
Nell’isola di Cefalonia, nel mar Ionio, si è consumata nel settembre 1943 una strage che ha disonorato per sempre l’esercito di Hitler: «Uno tra i più terribili crimini commessi dalla Wehrmacht nel corso del secondo conflitto mondiale», scrive Meyer”.

Wehrmacht, bisognerebbe fare notare a Jean Claude Juncker, lussemburghese diventato lavasecco della cattiva coscienza tedesca per ragioni elettorali, vuole dire esercito regolare, non SS, tedeschi normali, non fanatici nazisti.

“Supera ogni macabra immaginazione quel che accadde a Cefalonia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, nella violazione di ogni legge del diritto internazionale e dell’onor militare, tralasciando l’umana pietà.
Furono assassinati dai nazisti [Corrado Stajano scrive nazisti, ma erano solo tedeschi] migliaia di soldati e di ufficiali italiani della divisione «Acqui», nelle cave di pietra, a ridosso dei costoni rocciosi, nei valloni trasformati in piazze d’armi, lungo gli argini che i plotoni d’esecuzione fecero diventare tirassegni. Lasciati marcire, bruciati — montagne di cadaveri, ossa nauseabonde —, sepolti dai greci per i quali gli italiani, negli anni passati, non erano stati «la brava gente» della leggenda bugiarda e assolutoria.

Nei decenni la bibliografia su Cefalonia è stata nutrita. Quel massacro della Wehrmacht, bavaresi, austriaci, altoatesini comandati da ufficiali di educazione prussiana divenuti nazisti [Corrad Staiano usa il termine nazista non con significato politico, ma etico e infatti due righe dopo precisa] efferati (molti di loro dopo la guerra tornarono a far parte della Bundeswehr), colpì gli storici, i narratori, i giornalisti. Anche perché autori di quell’eccidio furibondo non erano state le SS, le falangi del nazismo.

Il massacro di Cefalonia — la puntigliosa prefazione di Giorgio Rochat mette in rilievo l’ampiezza della documentazione del saggio e la grande onestà di Hermann Frank Meyer — è l’opera totale, definitiva su quell’eccidio, per la visione d’insieme della guerra nei Balcani e per la cura ossessiva del particolare.

Imprenditore di successo, l’autore del saggio divenne uno storico di prim’ordine per motivi affettivi. Suo padre, ufficiale pagatore in un reparto tedesco, nel marzo 1943 fu rapito e ucciso dai partigiani. Il figlio, dopo la guerra, andò in Grecia per sapere del padre, ne riportò in patria i resti e raccontò in un libro la sua odissea. In quell’occasione raccolse molte notizie e documenti e seppe di un reparto d’élite della Wehrmacht, la 1ª divisione da montagna, che si era macchiata di orribili delitti. Nella ricerca arrivò così a Cefalonia.

Meyer, in questo saggio che esce postumo in Italia, ha analizzato libri e documenti, è entrato nella burocrazia della guerra e dei processi del dopoguerra, ha letto e ascoltato i radiomessaggi, i rapporti, gli ordini, le dichiarazioni giurate, i diari dei combattenti.

Che cosa accadde a Cefalonia. La sera dell’armistizio, per ordine del capo di stato maggiore della Wehrmacht, il generale Alfred Jodl, entra in vigore il piano «Achse» che prevede l’occupazione della Grecia presidiata dalle truppe italiane e il disarmo del regio esercito: non ha importanza che in Grecia le divisioni italiane siano sette e quelle tedesche quattro, con gli organici ancora incompleti.

Antonio Gandin, che dal giugno del 1943 comanda la divisione «Acqui» — 525 ufficiali, 11.500 sottufficiali e soldati —, non è un generale qualunque: dal 1940 è stato capo del reparto operativo del Comando supremo, un incarico di grande responsabilità. Il comandante dell’XI armata italiana, il generale Carlo Vecchiarelli, suo superiore, tratta subito la resa coi tedeschi, cerca di ottenere, senza riuscirci, condizioni onorevoli. Gandin rifiuta di obbedire al suo ordine di arrendersi.

Mentre i tedeschi, a Cefalonia, dove sono numericamente assai inferiori — un reggimento, 2.000 uomini —, danno a Gandin un ultimatum per il disarmo della divisione, il Comando supremo da Brindisi invia un radiogramma che ordina alla divisione «Acqui» di resistere «con le armi at intimidazione tedesca di disarmo at Cefalonia et Corfù et altre isole».
Gandin temporeggia. Poi i tedeschi attaccano dalla parte di Argostoli, il capoluogo dell’isola. Gli italiani resistono nonostante 72 Stukas sgancino 32 tonnellate di bombe. I tedeschi si ritirano, Gandin non sa sfruttare il momento favorevole, non incalza i tedeschi sconfitti e sbandati: arrivano i rinforzi, ma una motozattera viene affondata dall’artiglieria italiana nella baia di Vatsa, con morti e feriti.

È un momento di euforia. Tra il 13 e il 14 settembre il generale Edoardo Gherzi, con il consenso di Gandin, invia un messaggio radio ai comandanti di battaglione della divisione: i soldati vogliono combattere o vogliono cedere le armi? Unanimemente, ufficiali e truppa, manifestano la loro decisione di battersi.

A Cefalonia le cose precipitano. Esiste un ordine di Hitler fuori di sé per il tradimento: tutti gli italiani dell’isola devono essere fucilati. I tedeschi sono riusciti a far sbarcare i rinforzi, due compagnie di fanteria, due batterie di artiglieria, un battaglione alpino. Ma è l’aviazione tedesca a risolvere il conflitto martellando l’isola. La volontà di combattere degli italiani svanisce, in contraddizione con il famoso referendum. I tedeschi, soldati nati, sono inferociti contro gli ex alleati. La fedeltà, anche per i criminali, è un valore sommo per il mondo germanico. Gli italiani, in superiorità numerica, si arrendono ovunque, le tonnellate di bombe degli Stukas sono micidiali.
«Gli ammutinati», «i franchi tiratori», come erano definiti gli italiani, vengono fucilati subito dopo la cattura. Dal generale Gandin all’ultimo soldato. Quasi quattromila morti sull’isola, 1.346 in mare sulle navi affondate.