Bersani: il mistero dei sei che imposero Monti e l’austerity al Pd e all’Italia, regista Napolitano… salvò Berlusconi e ci regalò Beppe Grillo

di Redazione Blitz
Pubblicato il 18 Gennaio 2019 - 14:35 OLTRE 6 MESI FA
Bersani: il mistero dei sei che imposero Monti e l'austerity al Pd e all'Italia, regista Napolitano...salvò Berlusconi e ci regalò Beppe Grillo

Bersani: il mistero dei sei che imposero Monti e l’austerity al Pd e all’Italia, regista Napolitano…salvò Berlusconi e ci regalò Beppe Grillo

ROMA – Chi furono i sei massimi dirigenti del Pd che imposero al segretario del partito Pierluigi Bersani la scelta di Mario Monti come primo ministro? In cima alla lista c’è di sicuro Massimo D’Alema, sullo sfondo si agita il fantasma di Giorgio Napolitano, mancano altri 5 nomi dal ricordo di quel novembre 2011 che Bersani  con qualche anno di ritardo affida ad Augusto Minzolini

Fu una scelta che precipitò l’Italia nella crisi da cui non siamo ancora usciti del tutto e che ci ha portato dritti dritti al Governo a maggioranza 5 stelle. Ora ci giunge la versione di Pierluigi Bersani, all’epoca segretario del Pd di fatto principale sponsor di un esecutivo di fatto eterodiretto, commissariato in partenza. Se ci sarà un tribunale della storia, il principale capo di imputazione di cui la dirigenza Pd dovrà rispondere (insieme con la sinistra giornalistica che l’appoggiò e sostenne SuperMario nelle sue più umilianti e devastanti prosternazioni al diktat tedesco) è perché il Pd rinunciò a far cadere Berlusconi in Parlamento, andando a nuove elezioni, che avrebbe vinto, assumendosi a pieno la responsabilità di pilotare l’Italia fuori dalla recessione.

Forse fu un basso calcolo di convenienza. Evitando la responsabilità di governo, il Pd si illuse di uscirne con le mani nette da provvedimenti impopolari. Forse, visti i nomi e i collegamenti ancestrali che esalano dai miasmi di quegli anni, c’è qualcosa di più intimo, profondo e inconfessabile. Alla fine l’abbiamo pagata e la stiamo pagando tutti noi. E Berlusconi e ancora lì, alla faccia dei suoi mancati killer, ingessato, bendato, rabberciato, patetico, ma ancora e sempre in grado di dettare almeno in parte l’agenda della politica italiana.

La ricostruzione dei fatti di quei giorni, come riferita da Minzolini sul Giornale, è in puro stile Bersani, confusa, arruffata, piena di allusioni, abbastanza fuori bersaglio e anche un po’ patetica. Fu, secondo Bersani, non l’inizio della fine dell’Italia, condivisa con il suo ex più caro nemico: “Le vittime dell’austerity? Berlusconi e il sottoscritto…”.  

Bersani confida volentieri ad Augusto Minzolini per Il Giornale vecchi risentimenti e analisi perlomeno elusive: “Ricordo ancora la direzione in cui posi i dirigenti del partito di fronte all’opzione governo Monti o elezioni. Mi trovai di fronte un fuoco di sbarramento di sei interventi di esponenti di primo piano che consideravano Monti una scelta obbligata. Poi c’era Napolitano… Da quel momento, tutte le settimane, per un anno, sono stato sottoposto ad un’esame di montismo. E anche se avevo qualche dubbio sull’efficacia della politica del loden, dovevo accettare l’impostazione di chi, per far dimenticare il proprio passato comunista, pensa sempre che abbiano ragioni gli altri. La verità è che in molti si ubriacarono di retorica europeista. Trasformarono un’idea buona, l’Europa unita, in un’ideologia…”. 

Non siamo al mea culpa, manca il coraggio dell’autodenuncia, lo stesso, dobbiamo supporre dando retta alla sua ricostruzione, che mancò allora. Non fa i nomi, benché quelli dello stato maggiore piddino in quei tormentati giorni, a parte D’Alema e lo stesso Bersani, siano praticamente gli stessi. Ma su Napolitano, sul suo ruolo tutto fuorché neutrale, interventista ben oltre le prerogative presidenziali, solo un accenno, quasi incidentale, un glissare che sa di reticenza. 

Che non aiuta, per esempio, a diradare l’annoso rito complottista del “golpe” europeo ai danni di Berlusconi officiato dalla destra che fu di governo. Il problema non è capire come da allora Bersani abbia perso le elezioni successive imbastendo il lutto Pd della vittoria mutilata, quindi la chance di diventare premier, poi il partito stesso portandosi via il pallone quando capì che il gioco non gli piaceva più. Il problema è capire come l’intero establishment abbia fatto harakiri accettando supinamente ricette economiche sbagliate solo per stendere un tappetto rosso al populismo montante (M5S era all’8% quando si insediò Monti, il 22% alle politiche del 2013). Chi è causa del suo mal…