Carlo De Benedetti e la scalata a Repubblica. Cosa c’è dietro la imbarazzante polemica fra padre e figli sul futuro del secondo (ma più influente) quotidiano d’Italia? Cosa ha spinto l’ex presidente che controllava, attraverso una catena di società e prima che i figli lo estromettessero, il fu Gruppo Espresso ora Gedi, a rimettersi in gioco a quasi 85 anni compiuti? Pochi lo sanno, forse nemmeno lui, Carlo De Benedetti sarebbe in grado di spiegarlo bene. Gli addetti ai lavori e gli appassionati di questo genere di saghe di famiglia si interrogano e aspettano le prossime puntate.
Un quadro di scenario, intanto, può essere ricavato dalla lettura di una serie di articoli, usciti sui giornali e sui siti nei giorni seguenti il lancio dell’offerta.
Claudio Plazzotta, su Italia Oggi, evidenzia un limite della grande strategia di De Benedetti: togliere Repubblica dal mercato e affidarla a una fondazione. C’è un dettaglio che sfugge ai più. La fondazione che da quasi un secolo garantisce la pubblicazione e l’indipendenza del giornale inglese “Guardian”, voluta da C.P. Scott, direttore e proprietario che aveva ereditato dallo zio cotoniere, nacque per evitare che la proprietà del giornale fosse dissipata per pagare le enormi tasse di successione che negli anni ’30 del ‘900 imperversavano in Inghilterra.
La fondazione è ben fornita di denaro e si calcola possa contare, dopo la alienazione esentasse di un sito di auto, su riserve per oltre 800 milioni di sterline, cui attingere per coprire le ingenti perdite degli ultimi anni.
The Guardian, ricorda Plazzotta, chiude il suo bilancio con perdite operative da 20 anni consecutivi. Considerando solo gli ultimi sette esercizi, da quello chiuso nell’aprile 2013 a quello chiuso il 31 marzo 2019, il Guardian ha accumulato perdite operative per 383,2 milioni di sterline (444 milioni di euro), con investimenti miliardari che non hanno comunque fatto esplodere i ricavi: erano 210 milioni di sterline (243,2 mln di euro) nel 2014, sono arrivati a 224,5 milioni di sterline (260 milioni di euro) nel 2019.
Il Guardian, tanto per dare due numeri, ha chiuso il 2013 con perdite operative di 53,7 milioni di sterline su 196,8 mln di ricavi; nel 2014 ecco 48,3 milioni di sterline di perdite operative su 210,2 mln di ricavi; nel 2015 si arriva a 48,2 mln di sterline di rosso su 217,5 mln di ricavi; e il 2016 è l’anno orribile, con 100,4 milioni di perdite operative su 209,5 mln di ricavi (perdite pari alla metà dei ricavi, pazzesco). Ancora, 62,5 milioni di perdite operative nel 2017 e 53,5 milioni nel 2018. Un vero disastro, insomma.
Il 2019 è stato l’esercizio con la perdita operativa più bassa (solo, si fa per dire, 16,6 milioni di sterline) e le prospettive sembrano buone, con la speranza di un imminente pareggio. “Ma lo sforzo che il trust ha dovuto sopportare finora è stato altissimo”.
Si chiede Claudio Plazzotta: “L’Ingegner De Benedetti, che a novembre compirà 85 anni, ha la voglia e i mezzi per farlo? E poi,la formula della fondazione non mette al riparo dalla crisi”.
Bisogna inoltre ricordare, aggiunge Plazzotta, che “la nascita di Gedi, con la fusione tra Repubblica, Stampa e Secolo XIX, non deriva solo da logiche industriali. Ma è stata, diciamo così, molto appoggiata da quel sistema di interessi finanziari e politici che comunque non possono lasciare i quotidiani italiani più influenti nelle mani di chiunque. Vale per Repubblica, dove il socio di maggioranza è Cir ma il garante, con poco meno del 6%, è la Exor di John Elkann, e vale per Il Corriere della Sera, dove l’editore è Urbano Cairo, ma la rete di garanzie resta molto forte.
“Se Carlo De Benedetti avesse 20 anni di meno, il mercato potrebbe anche vedere con favore il passaggio di una società editoriale a un imprenditore appassionato come l’Ingegnere. Così come è stato quando Rcs è stata scalata da Cairo, che in poco tempo ha raddrizzato i conti della casa editrice gestita invece direttamente per troppo tempo dal cosiddetto sistema. Ma la fumosa governance di una fondazione, ai cui vertici dovrebbe poi salire un bravo giornalista ma senza competenze manageriali come Ezio Mauro, lascia interdetti in molti. Tanto che nel mercato si fa strada da più parti l’ipotesi che, in caso di ulteriori rilanci da parte dell’Ingegnere, possa entrare in campo l’altro Ingegnere, John Elkann, che con la sua Exor potrebbe lanciare una opa totalitaria su tutta Gedi”.
Una ulteriore luce sui limiti della proposta di Carlo De Benedetti è accesa da Laura Galvagni sul Sole 24 Ore.
L’offerta di acquisto, ricorda Galvagni, è fatta da De Benedetti attraverso la finanziaria Romed. Per farlo, Romed, al momento, ha messo sul piatto 25 centesimi ad azione, proposta rispedita al mittente dal cda di Cir. L’obiettivo era ritagliarsi poco meno del 30% dell’azienda andando a investire circa 38 milioni di euro.
Quante sono le munizioni a disposizione di Carlo De Benedetti? si chiede Galvagni. “In quest’ottica cruciale è la dotazione finanziaria della cassaforte la cui capienza è fotografata nell’ultimo bilancio della Romed”.
La società, riferisco, ha chiuso i conti del 2018 con un rosso di 25,7 milioni di euro. Una perdita rotonda che è stata coperta attingendo alla riserva di utili portati a nuovo e che ha ridotto il patrimonio netto da 163 a 137 milioni di euro.
Le ragioni della perdita, l’anno precedente aveva generato utili per 16,2 milioni di euro e quello ancora prima per 31,5 milioni di euro, è da ricondurre in sostanza alla caduta dei proventi da partecipazione che sono passati dai 95 milioni del 2017 ai 30,4 milioni del 2018. A ciò si è sommato un leggero incremento delle svalutazioni passate da 22 a 26 milioni.
Fin qui, il conto economico. Quel che più preme, in questi casi, è però comprendere a quanta liquidità può attingere la Romed. E in questo senso cruciali sono le disponibilità liquide, che a fine 2018 ammontavano a circa 17 milioni, una somma che vale poco meno della metà di quello che era l’impegno previsto su Gedi, e i debiti. In proposito, a fine 2018 Romed ha iscritto a bilancio debiti verso banche per un totale di 103 milioni di euro. Si tratta, come è scritto nella nota a commento dei conti, di linee di credito a revoca che, in assenza di scadenza prestabilita, sono inseriti tra i finanziamenti con scadenza a 12 mesi. Di questi circa 66 milioni sono garantiti da titoli azionari costituiti in pegno. Il che fa capire che di quei 103 milioni i denari “liberi” sono sostanzialmente circa 37 milioni, la cifra di fatto messa sul piatto per provare a conquistare il 29,99% di Gedi.
Difficile immaginare cosa possa accadere dopo.
Altre tessere al mosaico sono aggiunte da Fabio Pavesi sul Fatto. Pavesi esamina la società holding Cir, che Carlo De Benedetti ha lasciato ai figli, ottenendo in cambio un bel calcione nel deretano. Per Cir, avverte Pavesi, “esiste una soglia limite che è stata sfondata pesantemente al ribasso ormai da quasi 5 anni, dalla primavera del 2015 quando il titolo Gedi (l’ex Espresso) lasciò per sempre quota 1,23 euro, senza riacciuffarla. Ma cosa rappresenta? È il valore per azione di carico della partecipazione di Gedi nella holding di famiglia, la Cir appunto, che ne detiene oggi il 43,7%.
“Per Cir, ancora alla fine del 2018, il gruppo editoriale continua a prezzare 1,23 euro per azione, per un valore della quota di ben 273 milioni”.
Cir ha quindi “sul gobbone ormai da troppi anni una minusvalenza potenziale che supera i 200 milioni e non sarà mai colmabile del tutto, né con un rilancio di Gedi, come sostiene l’ingegner De Benedetti, né con una vendita come da tempo cercano di fare i figli. Il nervosismo in famiglia, tale da rendersi pubblico in forme così esplicite, si spiega solo così. Ma Gedi come Cir sono di fatto in un cul de sac, in un angolo.
“Da un lato, tenerla vorrebbe dire non affrontare il tema della svalutazione nella casa madre e contare su un recupero che l’andamento sempre meno redditizio dei conti non fa intravedere. Dall’altro, però, vendere significherebbe smettere di puntare su un business calante con la consapevolezza però che nessuno arriverà mai a offrire quei soldi. Un premio per il controllo, infatti, in genere è del 30% sui prezzi di Borsa. Un premio per il controllo, infatti, in genere è del 30% sui prezzi di Borsa. Fosse anche il 50%, non si andrebbe oltre i 37 centesimi, la cifra che avevano in mente Cattaneo e Marsaglia prima che tutto naufragasse, non si sa se per volontà dei compratori o per diniego dei fratelli De Benedetti. Vendere, inoltre, vuol dire anche far emergere il buco nascosto nei conti e ferire la Cir. Perciò tutto sembra senza via d’uscita. Tra l’altro, tutto avviene nel momento congiunturale più difficile per Gedi.
“Nel 2017 c’è stata la prima perdita da 123 milioni (dovuta, a dir il vero, all’onere da 140 milioni della conclusione della lunghissima lite fiscale del ’91); nel 2018 la seconda perdita, questa sì legata solo al business, per 32 milioni. Soprattutto, per il mercato conta la caduta sia dei ricavi sia, più grave, della marginalità del gruppo”.
In un altro articolo, pubblicato da Affari Italiani, Pavesi allarga lo sguardo all’intero settore dei quotidiani, la conclusione è amara: “L’editoria è in crisi strutturale da quasi un decennio; le vendite delle copie cartacee si sono dimezzate e solo l’aumento generalizzato dei prezzi unitari delle copie ha reso meno brutale la caduta dei fatturati che pur hanno perso valori a doppia cifra; i margini si stanno comprimendo e ormai sono redditività da industria delle commodity. Eppure le testate sembrano non perdere mai valore. O meglio qualche ritocco è stato fatto, ma minimo.
Gedi negli ultimi dieci anni, cioè nel pieno della crisi dell’editoria, ha svalutato valori delle sue testate per “solo” 107 milioni. I suoi giornali e le frequenze radiofoniche erano iscritte a bilancio per 660 milioni nel 2008; dieci anni dopo valgono ancora oltre mezzo miliardo”.
Però il fatturato nel 2008 “era di poco più di 1 miliardo, oggi supera di poco i 600 milioni. I margini di un gruppo, pur più profittevole dei suoi diretti concorrenti, si sono più che dimezzati: il margine lordo valeva il 15% dei ricavi e quello operativo superava il 10%: dieci anni dopo il Mol è a malapena al 5% e l’utile operativo nel primo semestre 2019 è a poco più dell’1% dei ricavi”.
Rcs aveva “a bilancio le sue testate a fine 2018 per 369 milioni su un attivo di 880 milioni. Siamo al 41,8% dell’intero bilancio. Meglio di Gedi, ma comunque un valore sempre elevato. La casa editrice di Corriere e Gazzetta e molto altro ha chiuso il semestre con un Mol rettificato poco sopra il 15% dei ricavi e un utile operativo al 12% del monte ricavi”.
“La Borsa del resto non si fa illusioni. Gedi che è in carico a Cir a 1,2 euro per azione valeva prima dell’offerta “irricevibile” di Cdb 25 centesimi; Rcs, che pur è passata dalle perdite monstre cumulate dal salotto buono per oltre 1,3 miliardi dal 2009 al 2015 ai 190 milioni di utili realizzati dal 2016 da Cairo, ha perso in Borsa dalla primavera scorsa oltre il 30% del suo valore”.
“Caltagirone, che pur tra tutti ha svalutato di più le sue testate per un valore di oltre 300 milioni nel decennio, pensa che i suoi storici giornali valgano tuttora 200 milioni, il 37% dell’intero bilancio di Caltagirone editore.
“Dal 2008 Caltagirone editore ha chiuso in utile un solo anno; per il resto le perdite nel decennio superano i 360 milioni di euro. Un bagno di sangue per un gruppo che ha più che dimezzato i ricavi in 10 anni. Però nonostante questo retroterra, i giornali del gruppo sono tenuti a bilancio per 200 milioni”.