Piccioni, Montesi, Fanfani, Togliatti: media e fake news, un giallo politico di 75 anni fa

di Marco Benedetto
Pubblicato il 15 Settembre 2018 - 06:53 OLTRE 6 MESI FA
Piccioni, Montesi, Fanfani, Togliatti: media e fake news, un giallo politico di 75 anni fa, nelle lettere di Leone Piccioni (a ds nella copertina del libro) al fratello Piero ingiustamente detenuto a Regina Coeli

Piccioni, Montesi, Fanfani, Togliatti: media e fake news, un giallo politico di 75 anni fa, nelle lettere di Leone Piccioni (a ds nella copertina del libro) al fratello Piero ingiustamente detenuto a Regina Coeli

Piccioni, Montesi, Fanfani, Togliatti. Nomi che dicono poco oggi. Furono, negli anni ’50, simboli di un caso politico-giornalistico-giudiziario che appassionò l’Italia, travolse vite, segnò il primo caso di fake news usate per travolgere i nemici, tre quarti di secolo prima che arrivassero Bannon, Trump e Putin. Fu anche un primordiale caso di via giudiziaria alla politica in cui l’ultimo quarto di secolo l’Italia si è evoluta.

Il caso Montesi, cioè 1. la vicenda giudiziaria di Piero Piccioni, 2. il dramma politico di Attilio Piccioni seguiti al 3. mistero della morte di Wilma Montesi, la ragazza romana di 21 anni il cui corpo fu trovato sulla spiaggia di Torvajanica l’11 aprile del 1953, è stato riproposto sul Fatto da Ettore Boffano.

L’occasione gli è data dalla pubblicazione di un libro, il 4 settembre 2018, “Lungara 29. Il “caso Montesi” nelle lettere a Piero”, autore Leone Piccioni, fratello di Piero. Il libro, presentato a Radio Radicale, ha già ottenuto anche il Premio Boccaccio. Il libro è la raccolta di 27 lettere, che, dal settembre al dicembre 1954, inviò al fratello Piero, detenuto per tre mesi a Regina Coeli, in via della Lungara 29 a Roma, indirizzo che dà il titolo al libro.

“Nessuno, è probabile, saprà mai dire come morì davvero” Wilma Montesi, è la conclusione di Boffano. Ma i documenti sulla tragedia della famiglia Piccioni sono in questo libro di 200 pagine appena stampato. Una tragedia senza spargimento di sangue ma con alto tasso di sofferenza umana, che si è intrecciata con l’imbarbarimento della politica italiana e e che non rappresenta più oggi, un mistero nel mistero. Arma del delitto fu il quotidiano romano comunista Paese Sera, mandante l’emergente leader democristiano Amintore Fanfani, trait d’union il Pci che aveva tutto l’interesse a assecondare le ambizioni di un potenziale aperturista. Gran parte del tormento interno alla Democrazia cristiana è stato determinato, per decenni, dal rapporto con i comunisti dei suoi “cavalli di razza”, Fanfani, Giulio Andreotti e Aldo Moro.

Boffano ha concluso la carriera come vice direttore del Fatto e dopo avere diretto il Venerdì di Repubblica, e, sempre per Repubblica, la cronaca di Torino e, inaugurandola, quella di Bari. Un po’, si deve dire, se ne intende.

Mette in fila le ipotesi fatte dagli investigatori sulla morte di Wilma Montesi: 1. annegamento, 2. suicidio (impossibile), 3. omicidio (probabilissima). Ma, conclude. nessuna sentenza è mai riuscita a certificarlo.

E ci fa capire senza molto spazio per il dubbio la verità dell’altro mistero.

Furono “i giorni dell’ipocrisia e delle manovre, delle strumentalizzazioni, che [allignavano] nel ventre della Dc. La stampa comunista è al centro delle denunce e dei colpi di scena, ma nel 2009, in un’intervista, Pietro Ingrao ammetterà: “Ricordo che le prime notizie… le prime spinte vennero da Amintore Fanfani e dai fanfaniani….”.

E siamo al tema principale dell’articolo, cui la morte di Wilma Montesi fa da spunto: la vicenda che travolse Piero Piccioni e suo padre Attilio Piccioni. Fu un “pozzo nero giudiziario, mediatico e politico”. Fu il “primo caso di character assassination della Repubblica italiana”.

Piero Piccioni è stato un grande musicista e compositore per il cinema italiano; era un giovane brillante, fidanzato con una delle più belle donne del mondo, l’attrice Alida Valli Suo padre Attilio è stato uno dei capi della Democrazia cristiana, delfino di Alcide De Gasperi. A De Gasperi Piccioni sembrava predestinato a succedergli proprio in quel 1953 che stava segnando il declino dello statista trentino (sarebbe morto un anno dopo). In quella estate del ’53 Attilio Piccioni era ministro degli Esteri in carica, se ne parlava anche come di un possibile successore, due anni dopo, di Luigi Einaudi alla presidenza della Repubblica.

Per padre e figlio Piccioni, fu l’inizio di un incubo. Per Piero, l’incubo durò tre anni, dall’arresto nel 1954 all’assoluzione nel 1957, scagionato per sempre dall’accusa di aver partecipato al festino di sesso e di droga nel quale sarebbe morta la Montesi. Per il padre che da ministro degli Esteri stava gestendo le trattative con gli Alleati per la restituzione di Trieste all’Italia, fu l’eclissi, seguita da un lento e implacabile tramonto.,

Chi volle tutto questo? Da sempre, ricorda Boffano, l’indice si è levato contro Amintore Fanfani, il rampante ministro degli Interni che guidava l’ansia della seconda generazione democristiana di prendere in mano il partito, il governo e l’Italia. Una regìa neanche troppo occulta e molto precisa? Stefano Folli, nella sua introduzione al libro di Leone Piccioni (l’altro figlio di Attilio; è morto l’estate scorsa, a 93 anni, 4 mesi prima della uscita del libro) Lungara 29, il caso Montesi nelle lettere a Piero, spiega:

“Una famiglia viene data in pasto all’opinione pubblica e l’operazione serve ad agevolare il ricambio al vertice del partito egemone… Un giornalismo che nel complesso, salvo qualche eccezione, si accontenta di far da cassa di risonanza alle mezze verità… un rapporto ambiguo, spesso in penombra, fra informazione, potere politico e, in qualche caso, autorità giudiziaria”.

Dei “mandanti o del mandante” di una “calunniosa macchinazione” parla Gloria Piccioni, figlia di Leone: sono “lettere che ci parlano di onestà, coscienza, dignità… e descrivono una fede lontanissima dai sepolcri imbiancati”. Leone Piccioni è stato anche lui un intellettuale (critico letterario e dirigente Rai) e a quel fratello legatissimo sin dall’infanzia e dalla scomparsa della madre nel 1936.

Nel dibattito di presentazione, Stefano Folli, oggi editorialista di Repubblica dopo anni al Corriere della Sera, è ancora più esplicito e fa diretto riferimento a Palmiro Togliatti, grande inarrivabile leader dl Partito Comunista Italiano e parla di regolamento di conti fra Togliatti e De Gasperi. Folli non va oltre ma il collegamento è più che fondato. In quegli anni di centralismo democratico è poco verisimile

Il libro si chiude con due ritratti di Attilio Piccioni: il primo è di Indro Montanelli, il secondo di Giovanni Spadolini. Entrambi ne riconoscono la grandezza politica e l’ignobile trama che ne ha minato il finale di carriera. Il 22 aprile 1962, sul Corriere della Sera, Montanelli pronostica per l’ultima volta l’elezione di Piccioni alla presidenza della Repubblica (ma toccherà invece a un altro dc, Antonio Segni) e scrive: “…Ciò che non ha bisogno di prove, perché era lampante nei fatti, fu la sadica voluttà di sporcizia e di distruzione con cui il modesto ‘affare Montesi’ venne gonfiato fino a conferirgli le proporzioni di un grande fatto di costume nazionale”.