Prima della Scala. Lo smoking di Mattarella chiude 50 anni di ’68, ma nell’Italia del vaffa forse è troppo tardi

di Marco Benedetto
Pubblicato il 8 Dicembre 2018 - 06:26 OLTRE 6 MESI FA
.Prima della Scala. Lo smoking di Sergio Mattarella (nella foto con la figlia Laura) chiude 50 anni di '68, ma nell'Italia del vaffa...

Prima della Scala. Lo smoking di Sergio Mattarella (nella foto con la figlia Laura) chiude 50 anni di ’68, ma nell’Italia del vaffa forse è troppo tardi

Prima della Scala, la contestazione, 50 anni dopo. Dà la misura di quanto sia cambiata, e in meglio, l’Italia. Ma non abbastanza purtroppo.

Credo di essere fra quei pochi che ancora ricordano quel 7 dicembre del 1968, quando un gruppo di contestatori tirò uova addosso al pubblico in abito da sera che stava entrando alla Scala secondo la secolare tradizione di Sant’Ambrogio. Fu un episodio che colse tutti impreparati, anche la classe dirigente. Fu invece l’inizio di un periodo tormentato, di crescita e anche di degrado, fra terrorismo e miglioramenti straordinari nella storia d’Italia e del mondo.

Per anni l’abito da sera per le donne e ancor più lo smoking per gli uomini divennero abiti proibiti. La rinuncia a quei simboli del benessere, per pura viltà e ipocrisia, nella sua banalità è per me il simbolo della debolezza della classe dirigente, tutti assieme, politici, padroni, ceti medi.

Vedere il presidente della Repubblica Sergio Mattarella benedire la platea dal palco reale sfavillante nel suo bello smoking dà sollievo. Nell’Italia delle felpe, dei sanculotti, dei descamisados, dei masanielli e del vaffa grillino, un po’ di decenza nel vestire, non per dandismo ma per rispetto all’istituzione Scala e alla città Milano, conforta.

Che un po’ di contestatori fuori del teatro, con i loro slogan e i loro insulti, non stravolgano la vita della città più di quanto avvenga in un normale sabato di proteste e cortei, è segno che non si perde la testa. Anche i contestatori sono diversi da quelli di due generazioni fa. Quelli facevano paura, questi fanno tenerezza.

Eppure, se riflettiamo un po’ sull’Italia di questi 50 anni, se non dobbiamo deprimerci, non dobbiamo nemmeno stare allegri. Dopo mezzo secolo di ’68 permanente, siamo arrivati a Beppe Grillo e Di Maio. Agli insulti e le parolacce fra ministri, non è decoroso.

Il ’68 fu in America il punto d’arrivo di un ciclo di trasformazione, la fine del dopoguerra, culminò nelle rivolte studentesche in varie università, il fermento si spense in pochi mesi. Come i granchi al cambio di stagione, l’America aveva cambiato pelle. Sotto il folklore della rivolta, c’erano la rivolta contro la discriminazione razziale, una criminalità diffusa, quasi endemica, con la morte in agguato dietro ogni angolo di strada, c’erano 58 mila ragazzi americani morti nelle jungle e nelle paludi del Vietnam, c’erano migliaia di studenti in fuga in Svezia per sfuggire alla lega obbligatoria, c’era la minaccia che la guerra fredda evolvesse in un conflitto nucleare.

In Europa il ’68 ebbe un momento esaltato e esaltante in Francia, il maggio francese. Durò un mese. Poi una marcia di 100 mila cittadini diede un forte segnale di restaurazione. Ai francese, dalla Comune di Parigi del 1870 in qua, le rivoluzioni non sono più garbate. Alla fine gli è andato meglio Hitler di un rischio rivoluzionario comunista.

Ci fu anche un momento ancor più esaltante, la primavera di Praga, quando sembrava che la Cecoslovacchia potesse liberarsi dall’oppressione sovietica e dalla conseguente depressione economica permanente. Ricordo le migliaia di studenti che quell’anno passarono le vacanze a Praga, piazza San Venceslao, la piazza principale di Praga, era occupata in permanenza da una folla di giovani da tutto il mondo, era diventata simbolo di una nuova libertà. Finì a Ferragosto, sotto i cingoli dei carri armati sovietici. A Alexander Dubcek, leader del nuovo corso praghese, andò comunque meglio del suo collega ungherese Imre Nagy, fucilato dai russi dopo la soppressione della rivolta del 1956. In quei dodici anni, anche al Cremlino qualcosa era cambiato.

In Italia, il ’68 fu un anno tranquillo, siamo sempre stati un po’ in ritardo rispetto al resto del mondo. Le cronache dagli Usa e dalla Francia sembravano venire da un altro pianeta. Quando alla Cecoslovacchia, erano tanti, da noi, che approvarono l’invasione Sovietica. 

La contestazione alla Scala, il 7 dicembre 1968, segnò l’inizio del ’68 italiano. In ritardo di un paio d’anni sui fermenti californiani, da allora abbiamo recuperato con gli interessi. 

La rivolta del ’68 trovò la classe dirigente impreparata, a tutti i livelli. Peggio ancora, ministri, imprenditori, politici a vari livelli, giornalisti scoprirono che il virus era penetrato nelle loro famiglie, alcuni loro figli finirono arruolati nelle file del terrorismo con i geometri mandati a studiare sociologia e filosofia da una delle prime picconate al sistema educativo italiano. L’approccio democratico della pseudo sinistra italiana: invece di aiutare i figli delle famiglie più deboli a crescere e dar loro con un adeguato sistema di biorse di studio, gli strumenti per metterli a pari coni figli delle famiglie ricche o benestanti, hanno permesso a tutti di accedere a tutte le facolatà universitarie. In fondo anche Pitagora era un geometra.

La classe dirigente italiana era impreparata, anestetizzata da 20 anni di fascismo e da altri 20 di crescita economica ininterrotta, il boom. Qualche crepa c’era stata solo pochi anni prima, a metà dei ’60. Quegli scricchiolii provocarono poi la presa di coscienza e l crollo del sistema. Si sommarono rivendicazioni sindacali per lo più giuste con l’irrequietezza giovanile e il processo imitativo tipico della provincia. Ci fu anche qualche interferenza straniera, mai documentata ma ben descritta nel romanzo Il Quarto Protocollo di  Frederick Forsyth. È riferito all’Inghilterra ma in quegli anni il caos italiano presentava analogie notevoli con la Gran Bretagna (a sua volta tormentata dal terrorismo irlandese, con tutte le sue connessioni internazionali). Questo spiega la strategia della tensione, le ricorrenti voci di colpo di Stato.

C’erano anche tanti scemi, rapiti dall’idea di un destino rivoluzionario, che giocavano alla contestazione perché in quel momento andava così. Fu un po’ un’epidemia. Nei miei ricordi personali c’è l’esperienza del ’69. Mandato dall’Ansa a seguire il Cantagiro, capolavoro di organizzazione e di professionismo di Ezio Radaelli, trovavo ad ogni tappa, da Cuneo fin nel profondo Sud, gruppetti di giovanotti urlanti, che cercavano di imitare i contestatori della Scala. Poca gente, rumorosa ma innocua. Abituato alla cronaca nera genovese, davo puntualmente le notizie e questo probabilmente aveva un effetto moltiplicatore. Ma non era mio compito mettere la sordina. Forse uno schizzo di idrante sarebbe bastato, ma lo sconsigliava il clima di appeasement del Governo del veneto Mariano Rumor, quello che si dimise di fronte alla proclamazione di uno sciopero generale. Radaelli però se la prendeva con me. Abituato alla simpatia dei giornalisti specializzati, non gli andava giù quella modestissima indipendenza manifestata da un umile cronista di provincia. 

Da quella prima della Scala del 7 dicembre 1967 derivò una cascata di violenza che infiltrò le lotte sindacali, degenerò nel terrorismo, percolò nella vita di tutti, nel modo di vestire, nel modo di rapportarsi al prossimo. E poi nel cinema, nei romanzi, nel linguaggio usato davanti ai bambini. Non c’è film italiano dove la parola d’ordine di Beppe Grillo non ricorra una mezza dozzina di volte.

Non mi vergogno a dire che appartengo al genere di persone che si intristisce quando una donna dice una parolaccia, quando una mamma non si rende conto che il suo figlioletto parla come un carrettiere. Mia mamma mi passava il sapone sulla bocca quando ripetevo le parolacce che sentivo dire dai giocatori di carte nel circolo degli ex combattenti. Chi mi conosce può pensare che non è servito a molto, se il risultato è il mio linguaggio da caserma. Ma quel sapone sulla bocca (oggi potrei rivolgermi al telefono azzurro, lo so) mi ha instillato la consapevolezza del bene e del male. Quando faccio una cosa che è male, la faccio ma ne sono consapevole. Non so se questo valga anche per la generazione al potere oggi.