Riforma Rai? Rete senza pubblicità dono a Berlusconi, Sky, La7: giornali mazziati e felici

di Warsamé Dini Casali
Pubblicato il 31 Marzo 2015 - 09:00 OLTRE 6 MESI FA
Riforma Rai. La minaccia: una rete senza pubblicità. Bluff Renzi: via i partiti

Riforma Rai. La minaccia: una rete senza pubblicità. Bluff Renzi: via i partiti

ROMA – Un regalo a Mediaset da un centinaio di milioni di euro può essere la vera bomba della Controriforma di Matteo Renzi per la Rai: una rete rai senza pubblicità. Altro che avanti con la cultura, cosa che sembra anche ai ciechi fare a pugni con Matteo Renzi, questo sembra proprio il vero contenuto del Patto del Nazareno.

Una rete senza pubblicità – Come ha scritto la Stampa di Torino,

“in cantiere c’è un completo ripensamento delle singole reti Rai. Con una rete – precisa Renzi – «senza pubblicità, destinata alla cultura, non in senso noioso ma come arricchimento della persona umana».

Si tratta davvero di «una riforma ambiziosa, profonda e innovativa», sostiene il parlamentare del Pd Michele Anzaldi, «che sarebbe piaciuta a Biagi e Montanelli».

Per un gioco non tanto del destino quanto delle regole sull’affollamento pubblicitario combinate con quelle del mercato, a beneficiare del regalo non sarà solo Mediaset ma a cascata un po’ di quei milioni andranno a Sky e La7, cosa che certo a Renzi non dispiacerà. A bocca asciutta resteranno i giornali (e radio e internet), che nella loro ossequiente e acritica esposizione della Grande Riforma non hanno capito granché.

La quota di raccolta pubblicitaria regalata (considerando fra l’altro un aumento legato alla probabile ripresa economica), secondo la proposta di riforma, non sarà intercettata dalle altre reti Rai gravate da paletti sull’affollamento pubblicitario nei programmi. Lo sarà in parte da Mediaset, poi a cascata da Sky e La 7. Neanche le briciole rimarranno per la radio, i giornali, internet.

A parte la rete senza pubblicità, il via libera del Governo Renzi al disegno di legge che promette di cambiare la Rai e sottrarla finalmente al controllo dei partiti si limita in verità a qualche modifica dell’impianto della legge Gasparri spacciata per rivoluzione della governance.

In aggiunta, la cosa più esplosiva, la minaccia buttata lì, forse per vedere l’effetto che fa, di una rete senza pubblicità che chissà perché fa meno rumore di un amministratore delegato al posto di un direttore generale.

Maurizio Gasparri, autore della tanto vituperata omonima legge Gasparri conferma:

“Tutta la galassia delle mie norme vive”.

L’intenzione di Forza Italia di votare il ddl, a dispetto della nuova stagione barricadera inaugurata da Berlusconi dopo lo strappo del Nazareno (vive anche questa di galassia) conferma i sospetti che la posta in gioco sia diversa. Sotto la nuova luminosa insegna Grande Riforma, se fra 4 mesi il Parlamento avrà abboccato all’amo di Renzi, ci sarà la stessa bottega di oggi solo un po’ più povera per la soddisfazione di concorrenti vecchi e nuovi.

Il consiglio di amministrazione è composto da 7 membri invece che 9: la nomina del presidente del Consiglio di amministrazione è effettuata dal consiglio di amministrazione medesimo nell’ambito dei suoi membri.

L’elezione del Consiglio di amministrazione avviene sulla base di una lista composta da 4 membri eletti dal Parlamento, ovvero due eletti dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica con voto limitato, 2 membri di nomina governativa designati dal Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro dell’Economia e delle Finanze e un membro designato dall’assemblea dei dipendenti.

Il Consiglio di amministrazione, oltre ai compiti attribuiti dallo statuto e dalla legge, approva il piano industriale, il piano editoriale, il preventivo di spesa annuale, gli investimenti superiori a 10 milioni di euro. (L’Eco di Bergamo)

Tutta qui la riforma della governance, cioè chi dirige e come si articola la catena di comando. Stupisce che ci si stupisca e si deplori oggi la circostanza che il Tesoro, quindi il Governo, avrà una presa maggiore sulla Rai: avevamo capito che Berlusconi regnante si era preso tutto, le sue tre reti Mediaset e quelle Rai. Dobbiamo dedurre che non fosse vero?

Canone semplificato
L’ultimo, importante capitolo della riforma riguarda il canone. «Io appartengo a una cultura che vorrebbe eliminarlo» ma so che «è molto complesso». Il premier spiega però che «c’è l’idea di riflettere su questo modello e semplificarlo» per «combattere un’evasione allucinante per cui i cittadini onesti lo pagano e altri che si rifiutano». (La Stampa)

Con la cultura non ci si mangia (sosteneva Tremonti) ma con la parola cultura ci si riempie la bocca lo stesso, si ottunde l’altrui sensibilità critica, si fa sempre bella figura. Il duopolio Raiset, che drena il 90% della pubblicità, non consente, non dovrebbe consentire, smantellamenti univoci in Rai senza che si tocchi contestualmente Mediaset.

Per una ventina d’anni fuori legge, letteralmente, Rai e Mediaset avrebbero dovuto lanciare un canale a testa (Rete 4 e Rai3) sul satellite liberando le frequenze. Non lo fecero, ma non lo fecero né l’una né l’altra. La stessa natura del duopolio, un po’ come la corsa all’atomica durante la guerra fredda, prevede che se aumenta la capacità di offendere di uno, deve aumentare anche quella dell’altro e viceversa nel senso della diminuzione, garantendo che la pace o il sistema non precipiti travolgendo entrambi.

Se si cambia, si cambia davvero e non si intraprendono soluzioni gattopardesche. A partire,  dall’anacronistica “Berlino est-Berlino ovest della tv” (Enrico Mentana): “il duopolio non ha ragione di esistere. Eppure, non si pensa a cosa fare col canone, con i tetti pubblicitari, a quanti canali ha senso tenere, a cosa possono fare Mediaset, Sky, quanto devono essere grandi” (sempre Enrico Mentana intervistato da Annalisa Cuzzocrea su Repubblica).

Si discute del ruolo del Parlamento con il balletto della Commissione di Vigilanza che non avrà più potere di nomina dei membri del cda, potere che ora passa direttamente alle Camere. Come se una commissione parlamentare non fosse espressione dei rapporti di forza nel Parlamento stesso.

Come prevedibile, ripassata la Costituzione, Matteo Renzi ha capito che il Parlamento in seduta comune non può eleggere i consiglieri di amministrazione Rai. E allora s’accontenta di una impercettibile modifica: quattro componenti del Cda non saranno nominati dalla Commissione di Vigilanza, che secondo il testo di legge licenziato in Cdm e da approvare in Parlamento è ridotta a marginale controllore, ma un paio li scelgono i deputati e un paio i senatori. La platea s’allarga, la sostanza resta uguale: la politica decide un bel pezzo di Viale Mazzini. (Carlo Tecce, Il Fatto Quotidiano)

E fortuna, ma se ne riparlerà più avanti, che Renzi ha stralciato dal progetto di Grande Riforma l’abolizione del canone senza specificare come lo avrebbe sostituito. Perché, tartufescamente in linea con quegli italiani “allucinanti” che il canone non lo pagano, anche a lui il canone non piace. Preferisce la fiscalità generale. Bene, progressività e sicurezza del risultato: però con una Rai alla mercé dei Governi che quei soldi potrebbero lesinarli a capriccio. Del resto come si fa a credere a una riforma in cui è normale ascoltare sofismi per cui si riesce a dire che la Rai verrà liberata dai partiti ma che chi ha responsabilità politiche non si “deve tirare fuori” (Renzi)?