Fair Game, una spy story tra sbadigli e retorica

Pubblicato il 28 Ottobre 2010 - 17:23 OLTRE 6 MESI FA

Spesso una regia equilibrata ed un’ottima coppia d’interpreti non bastano ad assicurare la buona riuscita di un film. Ed è questo il caso dell’atteso “Fair Game” di Doug Liman – già regista del fortunato “The Bourne Identity” -, nonostante la presenza di due star del calibro di Sean Penn e Naomi Watts, coppia rivelazione in “21 grammi” di Inarritu.

Il film, tratto dall’autobiografia di Valerie Plame, racconta la storia di un’agente Cia – interpretata da Naomi Watts – inviata in Iraq per indagare sulla produzione di armi di distruzione di massa dopo l’attentato dell’11 settembre. Pochi mesi dopo, suo marito l’ambasciatore Joseph Wilson (Sean Penn), viene spedito in Niger per far luce su un presunto traffico di uranio operato da Saddam Hussein.

Non trovando alcun indizio in merito, l’uomo decide di pubblicare sul “New York Times” un articolo contro l’amministrazione Bush rea di aver manipolato l’opinione pubblica. Ma la Casa Bianca non gradisce. E così la vera identità di Valerie viene improvvisamente rivelata ai più importanti giornalisti di Washington, distruggendole la carriera dopo 18 anni di onorato servizio. Anche l’attività di suo marito viene messa in seria difficoltà. Ma non basta. La coppia inizia a ricevere minacce di morte mentre la vita privata di Valerie rischia di andare in frantumi…

A metà strada tra la spy story e il thriller politico, “Fair Game” finisce col ridursi ad un pamplhet cinematografico scarsamente ispirato. Un peccato dal momento che l’intera sceneggiatura avrebbe dovuto trasportare sul grande schermo una vicenda politica capace di scuotere nel 2002 l’opinione pubblica statunitense. Alla pellicola di Liman manca infatti sia ritmo che ispirazione, nonostante un’ottima confezione (colonna sonora più che apprezzabile e perfetta fotografia di Jess Gonchor).

Nel corso della prima parte del film la presentazione dei due personaggi appare infatti troppo macchinosa, complici dei dialoghi tutt’altro che scorrevoli. Meglio senza dubbio la seconda parte dove il regista si preoccupa di mettere in risalto la crisi coniugale dei due protagonisti, vittime al contempo di un sistema politico corrotto e della cieca disinformazione del popolo americano. Il tutto raccontato senza mai coinvolgere fino in fondo lo spettatore.

In definitiva un manifesto liberal – intriso di retorica e buoni propositi – che piacerà senz’altro ai più incalliti detrattori di Bush Jr. Ma che rischierà di annoiare terribilmente buona parte dei fan di Sean Penn.