ROMA – “La costanza è il complemento indispensabile di tutte le altre virtù umane”. Lo scriveva Giuseppe Mazzini. Ora, cosa abbiano in comune il patriota italiano e il regista del quale stiamo per parlare, è cosa sconosciuta. Ma, almeno per quanto riguarda questa frase, mi sento di accostarla al cineasta senza troppi dubbi. Già, perché tante cose si possono dire riguardo a Quentin Tarantino, ma non che la sua opera filmica noi sia nel segno della costanza. Giunto al suo nono film (il penultimo, davvero?) Tarantino non sembra badare troppo agli anni che passano, anzi, sfrutta il proprio percorso, sicuramente di continuo miglioramento e di maturità, per parlarci proprio di un argomento a lui carissimo: il cinema stesso. Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Emile Hirsch, Timothy Olyphant, Dakota Fanning, Bruce Dern, Luke Perry, Damian Lewis, Kurt Russell, Al Pacino: praticamente una lista della spesa hollywoodiana per il suo C’era una volta a… Hollywood. Un cast stellare, ma ormai il regista di Knoxville (Tennessee) ci ha abituato alla coralità.
C’era una volta a… Hollywood ci catapulta direttamente nel 1969 a Los Angeles. Un anno di cambiamenti, di contraddizioni, di eccessi. La storia è quella di Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), un attore televisivo, o ancora meglio una star, che ormai vede i confini pericolosi del proprio declino. Ad accompagnarlo (in tutti i sensi, anche da autista) è la sua fedelissima controfigura Cliff Booth (Brad Pitt), che non se la passa certo meglio. Accanto alla villa di Rick, sulle splendide colline verdeggianti di Bel-Air, a Cielo Drive, vivono Roman Polanski e la sua splendida moglie Sharon Tate, un’attrice americana emergente. Tra un ciak e un altro, il film ripercorre il rapporto tra Dalton e Booth, le loro avventure e le loro disavventure in una Los Angeles presa d’assalto dagli hippie, e sulla quale aleggia la presenza di Charles Manson e dei suoi adepti capelloni. Così come in tutti i film di Quentin Tarantino parlare della trama è sempre pericoloso e infine inutile, dato che si rischia sempre di svelare troppo. Vi basti sapere solo che la pellicola è ricca di trame e sottotrame, di cambiamenti improvvisi e di ribaltoni.
Quentin Tarantino è ad oggi uno dei registi più imitati, quello che ha più influenzato il cinema americano e non solo dagli anni ’90, uno dei cineasti più conosciuti e uno di quelli più citati. Penso che ne abbia tutti i meriti, basta vedere la sua filmografia per accorgersi del peso storico di questo regista. Da Le iene a Pulp Fiction, da Jackie Brown a Kill Bill, da Bastardi senza Gloria a The Hateful Eight, Tarantino, forse più di altri, ha saputo muoversi tra i generi e i sottogeneri, tra il mainstream e il cult, sempre mantenendo il proprio pubblico allargandolo a più generazioni. Un cinema senza tempo. Fatta questa didascalica ma doverosa premessa, parliamo della sua ultima fatica, C’era una volta a… Hollywood. Il film propone un’ambientazione suggestiva, quella della Hollywood di fine anni ’60. I personaggi tarantiniani, da quelli di Rick e Cliff, usciti direttamente dalla mente del regista, fino a quelli di Sharon Tate e Roman Polanski, passando per gli hippie, sono perfettamente incastonati nella narrazione, laddove la caratterizzazione dei singoli viene lasciata alle immagini più che ad una comoda e superflua definizione psicologica. La pellicola scorre come acqua fresca, nonostante la durata. Il ritmo è quello giusto, molto più vicino allo standard di Jackie Brown che a quello di Django Unchained, per fare un esempio. Non si ha mai la sensazione di monotonia o lentezza, nonostante la verbosità di certe scene. Dal punto di vista tecnico credo ci sia poco da dire. Tarantino sotto questo aspetto ha raggiunto un livello tale di maturità e conoscenza del mezzo davvero invidiabili; dalla fotografia al montaggio, dalla regia alla musica. Quest’ultimo elemento è da sempre tra i più cari al regista, e qui non smentisce la sua capacità di saperlo dosare ed esaltare in concomitanza delle immagini. Discorso a parte per quanto riguarda la sceneggiatura. Pur mantenendo ingredienti filmici che fanno ormai parte del DNA tarantiniano, il regista ha la capacità di evolversi costantemente, riuscendo nell’impresa più difficile quando si parla di cinema ad alti livelli: sorprendere. Con questo suo ultimo film centra il bersaglio in pieno. Una scena raramente ne annuncia un’altra, raramente, anzi mai si ha la sensazione di vedere qualcosa di già visto. Sarà il tema, sarà la scrittura di certi personaggi o il profumo di un’ambientazione così evidentemente legata al cinema, ma il regista sembra quasi divertirsi con questo film, senza mai compiacersi (e il rischio era grosso). Come un appassionato che parla di ciò che ama di più, il pericolo più grande è quello di strafare, di esaltare senza criterio, di storpiare o di mescolare più cose senza senso. Tarantino poteva cadere nella trappola dell’amante più caloroso, e invece si dimostra perfettamente bilanciato nell’esposizione e nella narrazione. I dialoghi sono magnifici, i tempi comici sono perfetti, così come quelli più legati alle sequenze nelle quali la tensione è altissima. Tarantino dimostra di saper ancora maneggiare i generi con precisione, talvolta piegandoli e impastandoli come per una torta. Tarantino può non piacere, questo è certo. Talvolta i suoi mezzi possono risultare spudorati, eccessivi o perfino esagerati, e di questo se ne parla da fin troppo tempo. Il tanto denunciato eccesso di violenza. Non voglio addentrarmi in un tema tanto delicato e fuorviante come questo, perché i gusti rimangono gusti, ma come per ogni cosa, o come per ogni AUTORE, può piacere o meno. CLICCA QUI PER LA RECENSIONE DEL FILM IT – CAPITOLO 2.
C’era una volta a… Hollywood è un film che vive di tante cose. Per prima cosa la recitazione dei suoi interpreti. Leonardo DiCaprio è semplicemente impeccabile, bravissimo nel muoversi con grande agilità a più frequenze. Il personaggio di Brad Pitt sembra più ambiguo, con il viso da furbastro e finto tonto. Si potrebbe dire perfetto per la parte. Poi una Margot Robbie eccezionale nei panni di Sharon Tate. Il suo personaggio sembra quasi spostarsi con grazia sullo schermo come un angelo, senza macchia e sempre con il sorriso. Inutile dire che tutti i ruoli secondari, così come gli attori, sono perfetti. E questo è un classico nel cinema tarantiniano. Cinema e matacinema che si fondono, citazioni e autocitazioni, locandine e drive in, insegne luminose e luci al neon: il film si compone di tanti dettagli, di tantissimi elementi che non era affatto scontato riuscire ad equilibrare. Tarantino, superato l’apice della sua carriera, ha deciso di portare sullo schermo questo film che è un omaggio al cinema di un tempo, è un omaggio ad Hollywood, ai suoi eccessi certo, alle sue contraddizioni e ai suoi cambiamenti di pari passo con quelli dell’America di fine anni ’60. E’ un film che vive della creatività sconfinata del proprio AUTORE, della sua capacità e originalità nel rielaborare storie e personaggi, nel prendersi tutto il tempo necessario per raccontarle (forse a questo non si è più abituati). Sarà comunque un film che farà discutere, capace di spaccare l’opinione, capace di creare polemiche, capace di far arrabbiare qualcuno magari. Sì, è proprio un film di Quentin Tarantino.