Battaglione Azov, moglie comandante Denis Prokopenko: “Lui non è nazista, ad esserlo è l’espansionismo di Putin”

Il controverso Battaglione Azov ucraino. La moglie del comandante Denis Prokopenko è a Roma per spiegare chi è suo marito. E al Corriere spiega: "Lui non è nazista, ad esserlo è l’espansionismo di Putin".

di redazione Blitz
Pubblicato il 28 Aprile 2022 - 18:17 OLTRE 6 MESI FA
Denis Prokopenko

Denis Prokopenko in uan foto pubblicata su Wikipedia

Battaglione Azov, Katrina Prokopenko, la moglie del comandante Denis Prokopenko, è a Roma insieme ad altre due compagne del gruppo di combattenti dell’esercito ucraino intrappolati nei cunicoli dell’accaieria di Mariupol. Sono state accompagnate dal dissidente Pyotr Verzilov e sono qui per spiegare chi sono i loro mariti.

Al Corriere della Sera, la Prokopenko dichiara: “Siamo in Italia per raccontare la verità. Con loro ci sentiamo al telefono, sappiamo che potremmo non rivederli più”. Sul fatto che suo marito sia un personaggio controverso accusato di essere alla guida di un reggimento neonazista, la Prokopenko respinge le accuse: “Si tratta di propaganda. Se difendere il proprio Paese da aggressioni esterne significa essere nazionalisti, allora Denis sì, è un nazionalista. Come puoi dirti ucraino se non sei disposto a salvare il tuo Paese fino alla morte? Ma nazista no. Nel reggimento ci sono anche ebrei, azeri, tartari di Crimea. Nazista è l’espansionismo russo di Putin”.

Oltre alla Prokopenko, della questione Battaglione Azov ha parlato anche Michail Pirog, uno dei comandanti del battaglione. A Quarta Repubblica su Rete 4, Pirog ha spiegato il senso dei simboli usati dal Battaglione: “Nessuno va in India per abbattere i simboli sui loro templi. Hanno moltissimi secoli e sono pieni di svastiche orientate sia a destra che a sinistra. Ma significano altre cose. Il fatto è che i russi stanno utilizzando moltissima propaganda. Insistono nel dire che tutta l’Ucraina è nazista, che il governo di Zelensky è fascista”.

“Siamo nazionalisti, non nazisti”

L’errore starebbe nel confondere il “nazionalismo” col “nazismo”. “Non possiamo dire ai polacchi che sono nazisti solo perché amano la Polonia. Non possiamo accusare di nazismo gli italiani che amano la loro Italia. Lo stesso per qualunque popolo che ama la propria terra ed è pronto a difendere la propria casa. Sano e normale nazionalismo significa rispettare il proprio popolo e la propria Nazione, ma coesistendo con altri popoli ed altre Nazioni”.

Anche secondo Pirog, il vero “nazismo” sarebbe tutto nell’aggressione di Putin all’Ucraina. “È stato coniato un termine nuovo: ‘ruscismo’, una sorta di fascismo mostrato dalle truppe e dalla leadership russa”. 

A proposito di Mariupol e dell’accaieria Azovstal, Pirog è fiducioso: “Nelle ultime due settimane non c’è stata quasi la possibilità di un collegamento telefonico. Ma nessuno intende arrendersi. Quelli sono ragazzi che non sono fatti così. Tutti i nostri difensori sono degli eroi e combatteranno fino alla vittoria”.

Le moglie del battaglione a Kiev nella celebre piazza Maidan

Mentre Katrina Prokopenko e a Roma, molte altre mogli e compagne del Battaglione Azov sono a Kiev nella celebre piazza Maidan per chiedere di “salvare Mariupol” e i loro uomini.

L’acciaieria Azovstal è ancora teatro di guerra in Ucraina. All’interno c’è Pavlo che riesce a sentire la sua Olya una volta a settimana. “Lui mi dice che va tutto bene, ma io lo so che non è vero. Stanno finendo il cibo e le munizioni. Non c’è più tempo da perdere”, racconta lei all’Ansa.

Appena 20 anni come suo marito, sposato da uno, la moglie del soldato del battaglione Azov, circondato dai russi a Mariupol, è venuta apposta a Kiev da Ternopil, nell’ovest dell’Ucraina, per manifestare insieme ad altre decine di mogli, madri, sorelle.

Chiedono di far evacuare i civili e i feriti, di salvare i loro uomini intrappolati o di fargli arrivare più armi perché possano resistere ancora. Il viso dipinto di rosso sangue o dei colori della bandiera nazionale, in braccio dei peluche, anche questi insanguinati, per ricordare che nei cunicoli dell’acciaieria ci sono anche dei bambini. Intonano l’inno nazionale, scandiscono slogan, innalzano cartelli rivolti al governo ucraino, all’Onu, alla Croce Rossa, ma anche a Joe Biden, a Emmanuel Macron, a chiunque sia disposto ad aiutarle. 

“Salvate i nostri soldati”

“Salvate Mariupol”, “Salvate i nostri soldati”, “Salvate Azovstal”, “Salvate Azov”, ripetono all’unisono mostrando le insegne del controverso battaglione dalla matrice neonazista, diventato uno dei simboli della resistenza della città portuale all’aggressione russa.

“Siamo qui per chiedere al nostro governo e alla nostra gente di risolvere questa situazione, di chiedere più armi all’Europa e agli Stati Uniti, e alle parti terze come la Turchia di Erdogan di venire a salvare i civili, i feriti e di tirare fuori i nostri soldati da questo inferno”, aggiunge Olya.

Da Mariupol arriva anche la proposta del comandante della 36 esima brigata dei marines ucraini, il maggiore Serhiy Volyna, di adottare il “modello Dunkerque”, dove nel 1940 i britannici evacuarono oltre 300mila soldati dalle spiagge del nord della Francia.

“Mariupol, quanti ancora?”, recita un altro poster con la foto di un uomo che piange un bambino, mentre nella piazza altri bimbi, ignari e fortunati, giocano a rincorrersi tra file di tulipani rossi e alberi in fiore. La bandiera gialla e blu sulle spalle, Valentina, 26 anni, nasconde le lacrime dietro a grandi occhiali da sole.

Il suo  Valery, come lei originario di Mykolaiv, “due settimane fa è stato ferito alle gambe e al volto. Ha detto che non vedeva più niente. Però mi ripete che ‘è meglio morire con le armi in pugno che morire in un ospedale'”. “Devono mandargli altre armi, garantire corridoi umanitari o scambi di prigionieri”, dice ancora Valentina, che con Valery progetta “una grande famiglia, con tanti figli, quando tutto questo sarà finito”.

“Mio marito deve tornare sano e salvo”, si commuove e abbraccia l’amica. Le compagne di sventura cantano sempre più forte. Tra loro riescono a sorridere ma davanti alle telecamere dei giornalisti sanno mettersi in posa, i volti tesi, gli sguardi corrucciati o assenti. Due anziani si godono il sole di una primavera incombente seduti su una panchina nel centro di Maidan ancora svuotata dalla guerra e circondata da sacchi di sabbia e cavalli di Frisia. Dall’altro lato del Khreshchatyk, lo stradone a sei corsie che taglia in due la piazza, due stele aggiornate ogni giorno riportano il numero delle vittime: 4.436 ucraini e 34 stranieri “uccisi da Putin”.