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Condannato per omicidio 27 anni dopo il delitto, lo inchioda il Dna

di admin |26 Gennaio 2010 13:39

Paul Hutchinson e Colette Aram

Dopo quasi 27 anni, è stata la “regina” delle prove, il dna, a incastrare Paul Hutchinson. Per lui il carcere a vita. L’uomo è stato, infatti, condannato lunedì 25 gennaio al carcere a vita per il rapimento, lo stupro e l’uccisione della sedicenne Colette Aram, avvenuto il 30 ottobre del 1983.

Il corpo nudo della ragazzina venne rinvenuto in un campo di Keyworth, nel Nottinghamshire, la mattina dopo il delitto dal fratello diciannovenne Mark, ma per anni Hutchinson era sempre riuscito a farla franca, facendosi addirittura beffe degli inquirenti vantandosi in una lettera di essere lui lo strangolatore omicida, ma che nessuno lo avrebbe mai beccato, perché quel giorno indossava una maschera di Halloween e, quindi, nessuno lo aveva visto in faccia.

Il caso finì anche in tv, nella trasmissione “Crimewatch” della Bbc, ma senza che si arrivasse a una soluzione. Questo fino al giugno del 2008, quando la polizia ha arrestato uno dei quattro figli di Hutchinson per un banale reato di guida e comparando il Dna del ragazzo con la traccia parziale di quello del padre, lasciata su un tovagliolino di carta ritrovato nel pub dove l’uomo andò poco dopo il brutale omicidio, è stato possibile avere un riscontro positivo e procedere con l’arresto.

Per la verità, inizialmente Hutchinson tentò di accusare il fratello morto, ma quando gli investigatori hanno confrontato il Dna del fratello con quello del pub, non trovandovi alcuna corrispondenza, l’assassino confessò e un mese fa si dichiarò colpevole davanti alla Nottingham Crown Court, che lunedì ha emesso la sentenza.

Nel corso del processo è poi emerso che Hutchinson (che all’epoca del brutale assassinio viveva con la prima moglie e il figlio a sette strade di distanza dalla povera Colette) raccontò alla famiglia di aver avuto il cancro e di essere andato in ospedale a farsi curare e per dare maggior credito alla sua storia si rasò la testa, sostenendo di aver fatto la chemioterapia. Alla fine, l’uomo tornò a casa e continuò a condurre una vita normale, lavorando come elettricista e aiutando persino i ragazzi con problemi di apprendimento, senza mai rivelare alla moglie l’orrore commesso.

In seguito, si trasferì a Stockgill Close, dove mise in piedi un’attività di distribuzione di giornali, ma nemmeno alla seconda moglie e ai suoi tre figli confessò mai alcunché. «Paul è una bestia – ha ammesso al “Daily Mail” la nipote Marina – e il pensiero di quello che ha fatto mi disgusta. Ci vorrebbe la pena capitale per uno così». Una convinzione che è anche della mamma di Colette, la signora Jacqui Kirkby. «Abbiamo passato gli ultimi 26 anni della nostra vita a guardarci alle spalle – ha spiegato la donna al termine dell’udienza – immaginando chi potesse aver ucciso la nostra dolce Colette. E adesso possiamo finalmente passare il resto della nostra vita a ricordare i momenti felici che abbiamo passato con lei. Vorrei cavare gli occhi ad Hutchinson che non ha nemmeno il rimorso per quello che ha fatto, mi arrabbio ogni volta che lo vedo e vorrei che soffrisse. Come può andare avanti come se non fosse successo nulla? Non parla, non spiega perché l’ha fatto e io mi sento ingannata da lui perché ha distrutto la mia famiglia» (la signora Jacqui ha raccontato di aver divorziato dal padre di Colette, Tony, e di essere andata in Grecia nel 1989 per rifarsi una vita, ndr). «Tutto quello che ora so – ha concluso la signora Jacqui – è che Hutchinson è colpevole di un crimine orripilante e sadico contro mia figlia».

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