Nazismo: affamato fino a perdere i denti, picchiato e sodomizzato. La storia di un bimbo ebreo a Dachau

di Redazione Blitz
Pubblicato il 27 Maggio 2018 - 07:00 OLTRE 6 MESI FA
Nazismo: affamato fino a perdere i denti, picchiato e sodomizzato. La storia di un ebreo a Dachau

Nazismo: affamato fino a perdere i denti, picchiato e sodomizzato. La storia di un ebreo a Dachau

VARSAVIA – Quando nel 1939 i nazisti occuparono la Polonia, Szmulek Rozental era un bambino e rimase terrorizzato dal rombo del camion che trasportavano ciascuno venti soldati in uniformi gialle, seduti con il fucile tra le ginocchia. [App di Blitzquotidiano, gratis, clicca qui,- Ladyblitz clicca qui –Cronaca Oggi, App on Google Play] Si fermarono, stesero delle coperte sul terreno e, con l’aiuto dei poliziotti locali, chiesero che tutti gli oggetti di valore fossero consegnati e messi sui teli.

I soldati dettero fuoco alle barbe e ai colletti degli ebrei chassidici e i loro volti furono inghiottiti dalle fiamme, lanciarono da una finestra una donna insieme alla sedia su cui era seduta, e utilizzarono un taglierino per mozzare il naso a un uomo.

Tutti gli ebrei polacchi furono inviati nei campi di lavoro, compreso Szmulek, che in condizioni disumane trascorse i successivi sei anni a lottare per la sopravvivenza, in dieci campi di concentramento diversi tra cui il famigerato Auschwitz-Birkenau e Dachau.

Szmulek fu brutalmente picchiato e affamato fino a quando era ormai ridotto pelle e ossa e i con denti cariati. Fu sodomizzato dai nazisti e costretto quotidianamente a praticare sesso orale.

Ora il sopravvissuto all’Olocausto ha 89 anni e scritto la sua storia nel libro From Broken Glass: My Story of Finding Hope in Hitler’s Death Camps to Inspire a New Generation, edito da Hachette Books.

“A volte farei qualsiasi cosa per dimenticare. Per un giorno, un’ora o solo un momento vorrei essere libero dai ricordi”, scrive l’autore, che da quando è emigrato negli Stati Uniti si chiama Steve Ross, e aggiunge che “il ritornello mai dimenticare a volte suona come la mia maledizione. Le persone dicono di non dimenticare, vogliamo che le future generazioni in tutto il mondo comprendano il potere dell’odio, per impedire che un gruppo di persone sia accusato di tutti i mali del mondo”.

Dopo aver lavorato per 40 anni a Boston come psicologo nel sistema scolastico,  motivando i bambini abbandonati a loro stessi a studiare, si rese conto di dover fare di più. Parlare degli orrori che aveva vissuto non era abbastanza.

Nel 1995 ha ideato e guidato l’iniziativa per costruire il New England Holocaust Memorial a Boston, lungo il Freedom Trail, che ricorda costantemente “non dobbiamo permettere che accada di nuovo”.

Ross è rimasto orfano a causa dell’Olocausto e ha assistito a crudeltà oltre ogni immaginazione. Prima di essere catturato dai nazisti, l’allora bambino di nove anni Szmulek e la famiglia, con un contadino, tentarono di arrivare al confine russo.

Mentre viaggiavano attraverso la Polonia, dovevano fare in fretta: i cittadini temevano le ripercussioni sugli aiuti agli ebrei. Si diceva che i tedeschi stessero costruendo dei campi di lavoro dove intendevano far lavorare gli ebrei in schiavitù per costruire armi, camion e bombe.

Nel frattempo i soldati tedeschi spingevano con i fucili, calci e pugni centinaia di persone verso la stazione ferroviaria di Krasnik, in Polonia. Szmulek e la famiglia si rifugiarono in un edificio abbandonato e il mattino seguente i genitori lo accompagnarono fuori dal villaggio, dove avevano visto arare una coppia di contadini con due figli.

“Vi prego, i tedeschi presto prenderanno anche noi. Lasciate che il mio bambino rimanga qui”, implorò la madre di Szmulek e il contadino accettò. “Sarai al sicuro, un giorno ci incontreremo, lo prometto”, disse la mamma ma il ragazzino sapeva che non l’avrebbe più rivista.

La prima volta che arrivarono i tedeschi, dormiva nel fienile e, insieme a Wladek, un figlio del contadino, si nascosero sotto il trogolo dei maiali. Ma i tedeschi iniziarono ad andare nella zona sempre più spesso, prendevano denaro, cibo, vestiti, guardavano nelle case, nel fienile e nei campi per trovare o confiscare qualcosa di valore.

Szmulek dovette andarsene e su un carro Wladek lo condusse nella foresta, dove visse tra gli altri ebrei per più di un anno in condizioni climatiche avverse. A poche miglia da loro si trovava un accampamento nazista e i ragazzi  guadagnavano denaro o ricevevano cibo dopo aver lucidato gli stivali dei soldati.

Szmulek lo aveva fatto e conosceva le regole: fingere di essere polacco, non urinare all’interno del campo, così da non far vedere che era circonciso e sputare a terra se avesse sentito la parola Juden, in tedesco “ebreo”.  Ma in un’occasione, qualcosa andò terribilmente storto, scrive il Daily Mail.

Un soldato sbatté la faccia di Szmulek sugli stivali che stava pulendo e poi nella terra. Tirò i capelli, sollevò la testa e chiese: “Juden?”. Improvvisamente tutti i soldati lo attaccarono con un calcio nello stomaco, al fianco, sulla tempia. Con il sangue che usciva dalla bocca, Szmulek rispose: “Sì, sono ebreo”. Perse conoscenza e si svegliò lamentandosi e piangendo in un fienile stipato di uomini sdraiati su letti di legno, realizzati su strutture a più piani.

“Vi prego, nessuno dovrebbe essere trattato così, è mostruoso. Uccideteci”, gridò un prigioniero. Tutti indossavano la stessa camicia e pantaloni in lana grigia con strisce blu, ed erano troppo larghi. Si trovava a Budzyn, un campo di lavoro forzato e di concentramento in Polonia, dove i prigionieri erano costretti a costruire aerei.

Le guardie erano “kapo”, polacchi ebrei che prendevano ordini dai nazisti, ma erano più sadici e se vedevano una persona debole, veniva fucilata.

Un pezzetto di pane e un po’ di brodo era la razione giornaliera di cibo e i lamenti, i pianti, i bambini che supplicavano nel campo di prigionia erano la realtà. Cataste di corpi si accumulavano nelle fosse comuni in attesa di essere inceneriti.  Un vecchio nudo fu tenuto tra le recinzioni di filo spinato. Era morto da tre giorni.

Pregava affinché il padre l’aiutasse ma “sapevo che nessuno poteva farlo, non lì”. “Eravamo così disperati da aver perso la solidarietà, dimenticato chi e cosa eravamo”. Era pronto a qualunque cosa per ottenere qualcosa in più della mezza fetta di pane e brodo salato e insapore in una lurida ciotola di latta.

La latrina traboccante di feci e urina era così sporca che quando gli uomini entravano vomitavamo. Le larve fiancheggiavano le pareti e sui pavimenti correvano eserciti di scarafaggi; al posto della carta igienica veniva usato un giornale, uno straccio o una mano.

I ragazzi del campo lavoravano in cucina, sbucciavano patate, pulivano verdure e lavavano le stoviglie dei soldati tedeschi. Con tagli e lividi ovunque, lo stomaco vuoto e dolorante, Szmulek sognava di riposare in braccio a suo padre, ricevere i suoi baci, la madre che gli lavava il viso. Ma si trovava all’inferno, con una fame violenta e dolorosa.

Erano comuni i colpi del kapo dietro le gambe o al collo e la crudeltà preferita era l’asportazione della lingua. “Non c’è stato giorno in cui i cadaveri non fossero trascinati fuori dalle baracche, tolti i vestiti, le membra rigide, le bocche aperte come gli occhi, neri e vuoti”, scrive Ross e aggiunge: “A causa della fame il mio corpo si stava disintegrando, i denti iniziarono a diventare cariati e a pulsare”.

Szmulek spesso si nascondeva in una latrina, tra urina ed escrementi umani per evitare di essere ucciso.
Ha lavorato nell’inceneritore spalando le ceneri di persone che conosceva. Scoprì che il fratello, Herzil lavorava nella fabbrica di aeroplani sul lato opposto del complesso e col tempo riuscirono a incontrarsi segretamente. Herzil aveva l’unico ricordo di famiglia sopravvissuto, l’orologio del padre, nascosto nel didietro.

Durante un incontro, Herzil disse a Szmulek che intendeva scambiare l’orologio con un pittore, per cinque libbre di pane nero. Szmulek chiese di tenerlo per l’ultima volta. E il pane nero arrivò: “Non ho mai mangiato nulla di così buono. Le mie gengive marcivano, i miei denti si sbriciolavano, la lingua era intorpidita. Il gusto, avevo quasi dimenticato com’era” e per cinque giorni riuscì a sentirsi sazio.

E in qualche modo, Szmulek trovò la forza di vivere attraverso botte, stupri e fame. Quando gli alleati liberarono i campi, nell’aprile del 1945, i soldati americani piansero nel vedere le condizioni dei sopravvissuti.

Szmulek, dopo l’esperienza di Dachau, per anni soffrì di un disturbo compulsivo-ossessivo. Si lavava continuamente, strofinava la pelle fino a renderla viva, cercando così di eliminare gli orrori del passato.
Seguirono i graffi, diventò un accumulatore compulsivo e aveva paura di parlare di quanto gli accadeva perché temeva di spaventare le persone.

Steve Ross arrivò a Boston nel 1949 ed era malato di tubercolosi. “Da sopravvissuto malaticcio si trasformò in un eroe americano”, scrive Ray Flynn, ex sindaco di Boston e ambasciatore degli Stati Uniti in Vaticano. “Ha chiesto di non dimenticare mai l’odio né il potere della speranza”.

Ad avere grande influenza sulla vita di Ross è stato un comandante americano che con i carri armati nel 1945 liberò Dachau. Quando vide Szmulek camminare davanti a lui saltò giù dal carro armato e lo abbracciò dicendo le prime parole gentili che il ragazzo avesse ascoltato in cinque anni.
“Se potessi ritrovare quel soldato… vorrei che sapesse che cosa ha fatto per me, l’ho emulato e se amo le persone è grazie a lui”, ha detto Ross che non mai smesso di cercare quel comandante e ha sempre con sé la bandiera americana con 48 stelle che gli aveva regalato.