Terapie e accanimento, il cardinal Sgreccia su Martini: “Avrei fatto come lui”

Pubblicato il 2 Settembre 2012 - 13:48 OLTRE 6 MESI FA
Elio Sgreccia (Foto Lapresse)

CITTA’ DEL VATICANO – “Anch’io come Carlo Maria Martini direi no a quelle terapie”: il cardinale Elio Sgreccia, 84 anni, presidente emerito della pontificia Accademia per la vita e tra i massimi esperti di bioetica della Chiesa, entra nel merito della questione nata dopo la morte del cardinal Martini. Quella sul rifiuto all’accanimento terapeutico.

“Io e altri, se ci trovassimo nella stessa condizione, dovremmo fare come lui”, dice al Corriere della Sera.”Ho la massima stima e venerazione per il cardinale Martini, il suo servizio alla Chiesa e la sua esemplarità di vita. E mi sembra pretestuoso e irrispettoso eccepire qualcosa intorno alla sua morte”.

E per essere ancora più chiaro aggiunge: “Se qualcuno vuole stiracchiare le cose come se il cardinale avesse voluto evitare terapie che ancora si potevano fare, fatti suoi, la pensi come gli pare. Ma da ciò che ho letto e interpretato la scelta di Carlo Maria Martini e la sua morte sono avvenute secondo i precetti e i canoni dell’etica cattolica”.

Poi entra nel merito della differenza tra eutanasia e accanimento terapeutico e spiega: “L’accanimento terapeutico è rifiutato dalla Chiesa e da tutti i cattolici. Non solo è sconsigliato ma direi anzi che è proibito, come è proibita l’eutanasia. Così come non si può togliere la vita, allo stesso modo non la si può prolungare artificialmente. Decidere di togliersi la vita è un conto. Un altro è scegliere di non volere terapie che sono solo atti di turbamento della morte, di violenza sul morente. Sia l’eutanasia sia l’accanimento sono negativi”.

Il cardinal Sgreccia tratteggia il comportamento ideale del cattolico di fronte alla morte: “Un credente accetta serenamente la morte perché sa che la vita non finisce lì. Certo non sta a noi anticipare il momento, non è lecito compiere alcun atto soppressivo. Ma quando la morte sta arrivando, quando la cura non ha più significato e si aggiunge solo dolore e tormento, allora bisogna rispettare il malato e la sua condizione con serenità”.

Secondo Sgreccia, quindi, la Chiesa ha ragione quando ricorda ai suoi fedeli che la vita va rispettata anche in condizioni di apparente “non vita”: “Ricordare ai fedeli e a ogni uomo che la vita è un dono di Dio e va rispettata non è offendere la loro libertà, non va interpretato come un atto repressivo della libertà ma come ciò che la illumina. Ogni azione morale dev’essere illuminata dalla verità. Così rispettare la morte e saperla accogliere quando viene è un atto di grandezza dell’uomo, apre l’uomo alla visione di una verità stupenda: significa consegnare se stessi al Creatore”.

Poi il porporato affronta uno dei casi più dibattuti in Italia, quello di Piergiorgio Welby:”La situazione di Welby era affatto diversa. C’erano terapie che avrebbe potuto rifiutare all’inizio, quando ad esempio venne fatta la tracheotomia. Uno può dire: vado avanti seguendo la natura, non voglio un procedimento straordinario, essere attaccato a una macchina. Ma una volta che è accaduto e chiedi al medico di staccarti, allora la cosa cambia, gli chiedi di interrompere la vita, chiedi a un altro di farti morire”.