VARESE – Omicidio di Lidia Macchi, il giudice per le indagini preliminari chiede l’iscrizione nel registro degli indagati di don Giuseppe Sotgiu, sacerdote amico della vittima e del suo presunto assassino, Stefano Binda. Il reato che gli viene contestato è quello di falsa testimonianza: troppi non ricordo durante gli interrogatori. E persino, forse, una menzogna per fornire un falso alibi proprio a Binda, ora in carcere con l’accusa di omicidio volontario aggravato dai motivi abietti e futili, dalla crudeltà, dal nesso teleologico e dalla minorata difesa.
Ad insospettire i magistrati durante l’incidente probatorio per il delitto commesso nel gennaio del 1987, spiega Roberto Rotondo sul Corriere della Sera, è stata la lunga sequenza di “non ricordo” del sacerdote durante l’incidente probatorio al tribunale di Varese.
Don Giuseppe Sotgiu, in altre parole, non ha potuto o voluto rispondere alle domande del sostituto procuratore e del gip. Ma la sua “ostinata difesa”, scrive Rotondo, è stata interpretata come una reticenza, tanto che durante l’udienza la madre di Lidia Macchi, che era presente in aula e che conosce da decenni il sacerdote, è scoppiata in un piatto nervoso.
Così al termine dell’udienza il gip ha disposto la trasmissione degli atti alla procura di Milano per il reato di falsa testimonianza.
Scrive Rotondo sul Corriere della Sera:
“Il prete ha insistito nel dire di non ricordare nulla di quanto accadde nei primi mesi del 1987, quando la studentessa di 21 anni, che era sua amica, venne uccisa a Cittiglio con 29 coltellate. Sotgiu non ha ricordato nemmeno di essere andato a cena dai Macchi o che la stessa madre di Lidia, Paola Bettoni, partecipò alla sua ordinazione sacerdotale. Secondo le procura generale di Milano Sotgiu, all’epoca 20enne, avrebbe nel 1987 cambiato una testimonianza per fornire un alibi all’amico Stefano Binda. All’epoca fu chiamato più volte in procura e venne anche sottoposto all’esame del dna ma non venne mai formalmente indagato”.