Diaz: Caldarozzi, no servizi sociali. Catturò mafiosi e killer. Gratteri dice…

di Redazione Blitz
Pubblicato il 3 Gennaio 2014 - 12:41| Aggiornato il 4 Gennaio 2014 OLTRE 6 MESI FA
Diaz: Caldarozzi, no servizi sociali. Catturò mafiosi e killer. Gratteri dice...

Francesco Gratteri

GENOVA – Tre superpoliziotti, finiscono agli arresti domiciliari per le violenze alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001. A subire la decisione del Tribunale di sorveglianza che arriva ben 13 anni dopo, sono Spartaco Mortola, che allora dirigeva la Digos di Genova (deve scontare otto mesi), Giovanni Luperi, ex dirigente dell’Ucigos ora in pensione (deve scontare ancora un anno) e Francesco Gratteri, ex numero tre della polizia, anche per lui un anno da scontare. I tre, pur essendo in arresto, potranno beneficiare di alcune ore di libertà (fino a 4) e usare il telefono.Oltre a loro, lo scorso aprile è stato condannato a 8 mesi di domiciliari L’ex capo dello Sco, Gilberto Caldarozzi. Alla condanna, lo scorso dicembre è stata negata la possibilità di poter usufruire dei servizi sociali. 

Si tratta di poliziotti che in questi anni hanno ricoperto ruoli importanti partecipando ad importanti azioni di contrasto alla mafia. Giovanni Bianconi sul Corriere, racconta che i tre sono fuori grazie al decreto “svuotacarceri”, altrimenti starebbero ancora in galera. Scrive Bianconi che

“Hanno diritto a due ore d’aria al giorno, come i criminali a cui hanno dato la caccia nella loro carriera di poliziotti: assassini, sequestratori e capimafia. Gilberto Caldarozzi, già capo del Servizio centrale operativo, può uscire di casa ogni mattina tra le 10 e mezzogiorno, per il resto è recluso agli arresti domiciliari. E come lui Francesco Gratteri, ex direttore dell’Anticrimine nazionale, al quale i giudici hanno concesso due ore di libera uscita anche il pomeriggio, dalle 16 alle 18; forse perché deve scontare un anno, mentre a Caldarozzi restano otto mesi. 

Tutto grazie al decreto ‘svuotacarceri’, altrimenti starebbero in galera. Perché a loro, come agli altri funzionari coinvolti nella storia della false bottiglie molotov fatte trovare alla scuola Diaz di Genova nella perquisizione-pestaggio post G8 del 2001, i magistrati di sorveglianza hanno negato l’affidamento in prova ai servizi sociali. Cioè l’alternativa alla detenzione normalmente concessa ai condannati incensurati con residuo pena inferiore a tre anni; per capirci, la misura richiesta da Silvio Berlusconi sulla quale dovranno pronunciarsi i giudici di Milano. Quelli di Genova, per i «poliziotti della Diaz», hanno appena deciso: non meritano alcun beneficio, tranne qualche caso”. 

“A chi lo conosce e lo incontra nelle ore d’aria, mentre cammina a passo svelto per le vie di Roma, Gilberto Caldarozzi non nasconde l’amarezza per il trattamento riservato a lui e alcuni colleghi. Colpevoli, secondo le sentenze, non della sciagurata irruzione alla Diaz, bensì della falsa attestazione che nella scuola c’erano due bottiglie molotov, in verità recuperate qualche ora prima per le strade della città. Una copertura postuma per giustificare l’ingiustificabile violenza sui ragazzi. Studiata a tavolino. Ma da chi? “

“Caldarozzi, come Gratteri e altri condannati, ha sempre negato di aver saputo che quelle bottiglie erano state sistemate a bella posta da altri poliziotti, anche dopo la condanna d’appello (seguita all’assoluzione di primo grado) divenuta definitiva nel luglio 2012. Fino ad allora ha guidato operazioni importanti come le catture di Bernardo Provenzano e dei boss camorristi Iovine e Zagaria, la scoperta degli assassini del piccolo Tommaso Onofri a Parma, quelli di Francesco Fortugno a Reggio Calabria, l’autore della strage alla scuola di Brindisi nell’estate 2012. Subito dopo è arrivato l’ultimo verdetto, la sospensione dal servizio, il limbo dell’attesa contrassegnato da continue memorie, istanze e controdeduzioni. Infrantesi sulle decisioni finali: niente misure alternative, solo detenzione. Commentate da Vittorio Agnoletto, già portavoce del Genoa Social Forum, con un laconico ‘meglio tardi che mai'”.

“(…) Il problema è che l’ex poliziotto continua a sostenere — al pari di Gratteri — di essere stato ingannato da chi, la sera della Diaz, disse di aver trovato le due bottiglie all’interno della scuola. E in base a quelle comunicazioni firmò il verbale d’arresto per gli occupanti della Diaz (Gratteri neanche quello, non essendo ufficiale di polizia giudiziaria). Dunque nega di aver commesso il reato; difficile, per lui, andare oltre il «rammarico per chi ha subito violenze gratuite e altri nocumenti da parte di alcuni esponenti della polizia», come riferito dall’assistente sociale che aveva espresso parere favorevole alla misura alternativa alla detenzione”. 

Niente da fare. ‘Non si discute — hanno scritto i giudici — del diritto del condannato di dichiararsi innocente anche dopo la pronuncia della sentenza irrevocabile di condanna, quanto piuttosto di riscontrare come il Caldarozzi non manifesti consapevolezza riguardo ai fondamentali valori violati». Così si torna al punto di partenza: la richiesta di un atto di ‘resipiscenza’ per chi ritiene di non aver consapevolmente violato alcunché. E a quel che l’ex investigatore ha sostenuto da quando il verdetto è divenuto definitivo: non lo condivido ma lo accetto, non chiedo trattamenti di favore ma nemmeno pregiudizialmente sfavorevoli, come gli era parso il ricorso della Procura generale genovese contro l’automatica applicazione della legge svuotacarceri, respinto dalla Cassazione”. 

“Adesso resta la reclusione accompagnata da una notizia che sembra l’ultimo paradosso di questa storia: tra i pochissimi condannati a cui è stato concesso l’affidamento in prova c’è quello che ordinò a un suo sottoposto di portare le due famose molotov dentro la scuola. Uno dei principali responsabili della messinscena, insomma, col quale durante l’istruttoria Gratteri aveva vanamente chiesto di essere messo a confronto. Come e perché arrivò quell’ordine non s’è mai capito, ma oggi il poliziotto che lo diede non è detenuto. Gli altri sì “. 

Sulla stessa riga, un articolo su Libero a firma Gianni Amadori, spiega lo stato d’animo dei superpoliziotti arrestati pubblicando ampi stralci della testimonianza rilasciata da Francesco Gratteri, il 5 dicembre scorso al tribunale del riesame di Genova

“In realtà i giudici lo hanno condannato  definitivamente a 4 anni per falso, calunnia e arresto illegale (dopo averlo assolto in primo grado) accusandolo di aver autorizzato se non ideato l’introduzione di due molotov nell’istituto per giustificare quello scellerato raid. Una ricostruzione che Gratteri ha sempre respinto. Sino all’ultima udienza. Quando, un mese fa, ha chiesto di poter scontare il residuo anno di pena con l’affidamento in prova ai servizi sociali. Ma alla vigilia di Capodanno i giudici hanno escluso questa soluzione. Un’alternativa che invece è stata concessa a Pietro Troiani (ben difeso dall’avvocato genovese Giorgio Zunino), il poliziotto che quelle bottiglie incendiarie aveva introdotto dentro la scuola. Una decisione che ha lasciato allibiti i vecchi compagni di indagini di Gratteri (…) Per convincere le toghe a scegliere per lui una pena meno avvilente della detenzione, Gratteri, come detto, ha consegnato al tribunale un’ultima accorata autodifesa. In cui ha ricordato alcune delle umiliazioni subìte durante il processo: come quando ha conosciuto in anteprima gli stralci della memoria dell’accusa dalle pagine di Repubblica o quando, mentre si rivolgeva ai giudici, è stato avvicinato da un commesso che gli ha intimato di alzarsi in piedi di fronte alla corte, essendo lui un imputato alla sbarra. Per questi e altri motivi Gratteri ha preso carta e penna e ha difeso la propria storia”.

“Un percorso che va dalle indagini sull’attentato al treno rapido 904 del 23 dicembre 1984 a quelle sull’ordi – gno esploso quasi trent’anni dopo, nel 2012, a Brindisi davanti alla scuo- la Morvillo Falcone. Ha rivendicato una vita professionale dedicata soprattutto alla lotta alla criminalità organizzata, dalla Calabria (terra d’origine di Gratteri) alla Sicilia. A Palermo, per esempio, è stato tra i protagonisti delle indagini sulla strage di Capaci, quella dove perse la vita, tra gli altri, il giudice Giovanni Falcone. Un lavoro che ha portato alla cattura di boss del calibro di Gio- vanni Brusca e Leoluca Bagarella. Il tutto’non per gloria personale’né per soldi. ‘Ho sempre vissuto soltanto del mio stipendio, senza mai accettare un soldo che non mi spettasse e che non fosse il frutto del sudore e dei sacrifici ai quali, nel mio lavoro, per mia libera scelta e credendoci, mi sono prestato» ha appuntato il poliziotto. Una carriera senza macchia e tutta in prima linea: ‘Ho operato senza risparmio di energie e l’ho fatto non dando disposizioni da dietro una scrivania, ma per strada». Con questo curriculum e una prosa densa di amarezza Gratteri è ritornato sui fatti di Genova: ‘Mi si chiede ora di dare dimostrazione del mio reinserimento o di fornire atteggiamenti che siano sintomatici di un sentimento di resipiscenza in relazione a quel che è tristemente accaduto alla scuola Diaz”.

“Sul punto tengo a manifestare ulteriormente, in questa sede, il senso del mio più profondo dispiacere per quanto accaduto alla scuola Diaz, soprattutto con riguardo alla violenza consumata nei confronti dei giovani presenti”. Sembra un mea culpa, ma non è così: ‘Tengo a precisare tuttavia di non aver subito condanna – non essendo stato nemmeno rinviato a giudizio – per la specifica vicenda delle violenze, attribuibili, quindi, ad altri e non a me e quanto al reato per il quale sono stato condannato, rispondo per fatto commesso da altri e perché altri ancora non hanno avuto il coraggio di assumersi quelle responsabilità che a loro competevano”.

Tra questi anche qualche superiore che si sarebbe sottratto al proprio dovere di lealtà verso i colleghi. Un atto di accusa forte e forse inaspettato. In cui rivendica anche la sua collaborazione con i magistrati, a suo giudizio non sufficientemente riconosciuta. ‘Oltre al fatto di non essermi mai sottratto alle domande della pubblica accusa, ultimata l’attività istruttoria da parte del pubblico ministero, richiesi di poter essere ulteriormente interrogato al fine di chiarire la mia posizione e offrire un doveroso contributo per la giusta lettura dei fatti”.

Nel suo documento Gratteri riporta alcuni passaggi di quell’ultimo interrogatorio (‘quindi a istruttoria conclusa’ sottolinea) e in particolare le parole di uno dei pm: ‘Guardi, non c’è alcun elemento. Non c’è nessuna dichiarazione su cui possiamo fare leva per attribuirle questo ruolo di istigatore mandante. Lei in parte ha ragione nel senso che…’. Una dichiarazione che fa esclamare al poli- ziotto: ‘Però me lo attribuisce…’.

“Il magistrato parte in contropiede: ‘Noi riteniamo che la sua dichiarata estraneità rispetto al momento decisionale dell’arresto non corrisponde diciamo agli elementi che abbiamo raccolto’. L’avvocato di Gratteri si inalbera: ‘E quali sono questi elementi? Perchè noi cercavamo di sapere proprio questo. Perché dato che tutti coloro che hanno redatto il verbale di arresto hanno detto di non essersi consultati con il dottor Gratteri. L’elemento che voi invece ritenete sussistente e finale è di natura logica’. Il pubblico ministero non si scompone: ‘Sì, ma la logica non è spazzatura’. Con queste e altre citazioni Gratteri intende rimarcare di essere stato condannato per il classico ‘non poteva non sapere’ o meglio, in quella sciagurata notte, perché ‘non poteva non aver deciso’. L’ex capo della Direzione centrale anticrimine non riesce a mandare giù questo sillogismo e ricorda di aver provato a ottenere un confronto all’americana con i responsabili materiali dei reati per cui è stato condannato”.

“Richiesi di chiarire alcune vicende e anche allo scopo di rimarcare la presa di distanza da esse (cosa che affermo ancora oggi con vigore sia con riguardo alle violenze che alla fraudolenta introduzione di armi o altri oggetti) di poter essere sottopo sto a confronto con il dottor Pietro Troiani (portatore delle bottiglie molotov all’interno della scuola e da me mai in precedenza conosciuto); col prefetto Ansoino Andreassi (all’epoca vicecapo della Polizia ndr) o con altri miei superiori, fosse anche il capo della Polizia (così dissi) (…) Chiesi anche di essere posto a confronto con qualsiasi ufficiale e agente di polizia giudiziaria da me “indotto o co- stretto” a redigere atti falsi'”.

Un confronto che alla fine non è gli è stato concesso. Come non sono arrivate le sue pubbliche scuse, che forse gli avrebbero evitato i domiciliari. Ma quella non era una scorciatoia adatta a lui: «Avverto il bisogno di tutelare la cosa alla quale ho sempre attribuito un valore assoluto e di doverlo fare per me e per tutti quei poliziotti per bene con i quali ho avuto la fortuna e l’onore di lavorare: è la mia dignità. Se non guardassi a essa e da essa non fossi guidato, potrebbe forse risultare molto più comodo assumere un atteggiamento di accondiscendenza rispetto alla richiesta di pubbliche scuse’. In coda Gratteri inserisce una citazione: ‘Ciascuno di noi ha diritto a essere giudicato sull’insieme delle sue azioni, nell’ambito della sua vita’.

“Parole, pronunciate, scrive l’ex capo dello Sco, da ‘un autorevole parlamentare’. Il politico senza nome è il capogruppo del Partito democratico al Senato Luigi Zanda. Ma con quella frase non si riferiva a Gratteri, bensì al ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri. Forse il poliziotto avrebbe voluto essere trattato con lo stesso magnanimo garantismo riservato al ministro”.