Giorgio Panariello: “Mio fratello? Poteva succedere a me”

Pubblicato il 24 Gennaio 2012 - 13:50 OLTRE 6 MESI FA

MILANO – “Primo, ribadire che la fine di chi inizia a bucarsi, e non smette davvero, è sempre e soltanto questa: la morte. Secondo, denunciare il fatto che non si parla più di un problema, quello dell’eroina, che non è mai stato risolto e coinvolge ancora tantissima gente”. Con questi obiettivi Giorgio Panariello rilascia a Vanity Fair – che gli dedica la copertina del numero in edicola il 25 gennaio – un’intervista sulla morte del fratello minore Franco, trovato cadavere la notte di Santo Stefano, in un’aiuola di Viareggio, per un’overdose di eroina.

“Terzo, dire che i figli vanno messi al mondo in maniera responsabile, e fin da piccoli seguiti, rassicurati, amati”. Panariello sa di che cosa parla: lui e il suo fratello minore sono stati entrambi abbandonati dalla madre subito dopo la nascita, e non hanno mai conosciuto i rispettivi due padri. Solo che Giorgio venne affidato ai nonni materni, Franco invece finì in un istituto dove passò i primi dodici anni della sua vita. E quanto questo c’entri con i suoi trent’anni da eroinomane, e con la fine che ha fatto, è la parte più sofferta dell’intervista. Sapeva che suo fratello era tornato a bucarsi? “No, è stato il classico fulmine a ciel sereno. So bene, però, che un drogato può anche essere fisicamente a posto, ma se non lo è psicologicamente, in maniera assoluta e definitiva, è tutto inutile: sarà sempre a rischio. Per salvarsi bisogna essere forti, e Franco era una persona fragilissima. Nel 2006, dopo sei anni passati a San Patrignano, sembrava “pulito”: durò poco. Poi, dopo tanti alti e bassi, compreso uno spaventoso incidente d’auto, eravamo riusciti a farlo entrare nella comunità di Don Mazzi, dove era rimasto fino al Natale 2010. Adesso pensavo fosse a posto, ma evidentemente dentro aveva ancora una scintilla che non si era spenta. Il 26 sera è tornata fuori la sua debolezza, e gli è stata fatale. Non si muore solo di overdose: se presa dopo tanto tempo, uccide anche una piccola quantità”.

Come ha saputo della morte? “La mattina del 27 mi sono svegliato, ho acceso il portatile, e ho visto che alle 8.30 mi aveva cercato Carlo Conti. Carlo aveva saputo di Franco da un’amica poliziotta di Viareggio che, non sapendo come rintracciarmi, aveva avvisato lui. Quando ho saputo, la mia prima reazione è stata di rabbia: Franco, giurandomi che aveva smesso per sempre, mi aveva preso per il culo ancora una volta. Questo ho pensato lì per lì, anche se poi l’autopsia ha confermato che, prima di quella sera, era stato davvero “pulito” per un lungo periodo. Rabbia, tanta rabbia. Solo dopo è arrivato il dolore. E i ricordi”. Il primo ricordo che ha di suo fratello? “La prima volta che ci siamo visti, nel 1972. Io avevo dodici anni, lui undici. Fino ad allora non avevo mai saputo della sua esistenza. Quando mia madre mi aveva abbandonato, ero andato a stare dai nonni materni, che in casa avevano altri cinque figli. Quando era nato Franco, invece, i nonni non se l’erano sentita di accoglierlo, e lui era finito in collegio. Solo alla fine delle elementari venne a stare da noi. E io scoprii di avere un fratello”. Che ce l’aveva con i nonni, e anche un po’ con lei. “Franco era incazzato con la vita perché in istituto, da solo, c’era stato lui, non io”. Che cosa le raccontò, dopo, di quella esperienza? “Poco, aveva un carattere riservato. Ma abbastanza da capire che per lui era stato un calvario: i suoi problemi erano nati tutti là dentro. Ogni volta che litigavamo, infatti, tirava fuori il rancore covato in quegli anni di solitudine”. Si è mai chiesto che fine avrebbe fatto, se fosse stato al suo posto? “Forse avrei fatto la sua stessa vita, e oggi a parlare con lei ci sarebbe Franco. O forse no, non lo so. C’è poco da dire: io sono stato fortunato, lui sfortunatissimo”.