Gloria Pompili massacrata di botte a Frosinone: la lettera di Claudia Pepe

di redazione Blitz
Pubblicato il 1 Settembre 2017 - 07:00 OLTRE 6 MESI FA
Gloria Pompili massacrata di botte a Frosinone: la lettera di Claudia Pepe

Gloria Pompili massacrata di botte a Frosinone: la lettera di Claudia Pepe (Gloria con i figli, foto da Facebook)

ROMA – Gloria Pompili è morta a 23 anni mentre, dopo il lavoro, faceva ritorno a casa, a Frosinone, in compagnia del cognato e della cugina. Un altro femminicidio, uno delle centinaia che si contano ogni anno. Ma la sua storia non è apparsa sui giornali. E questo per un motivo molto semplice: Gloria non era una impiegata, un’infermiera, un’insegnante, una pensionata. Gloria era una pr0stituta. O meglio: Gloria era molto altro, ma questo era il suo mestiere.

Quella notte fra il 23 e il 24 agosto Gloria si trovava sulla strada dei Monti Lepini a Prossedi, vicino a Latina, quando un uomo, forse un suo cliente o il suo “protettore”, l’ha massacrata di botte. Le lesioni le hanno provocato la frattura di una costola, che le ha perforato la milza, i polmoni e l’intestino. Gloria è morta in mezzo alla strada, come aveva vissuto negli ultimi anni.

E mentre una censura autoimposta metteva a tacere i media, Claudia Pepe, insegnante di Vicenza, ha voluto dare alla storia di Gloria e alla sua morte almeno un po’ di memoria postuma. Lo ha fatto con un post che è stato subito condiviso e ripreso da diversi quotidiano online, e che qui riportiamo.

 

“Pochi giornali hanno parlato della mia morte. E allora lo faccio io perché la mia morte non deve essere dimenticata. Sono nata a Frosinone 23 anni fa e i miei genitori mi hanno chiamato Gloria. Ma nella mia vita la gloria non è arrivata neppure quando mi hanno ammazzato a calci e pugni. La mia vita dal primo momento che ho potuto sfiorarla, mi ha fatto capire che per me non ci sarebbero stati sconti, non ci sarebbero stati sogni o desideri da accarezzare. Dopo 7 anni i miei genitori, mi hanno affidato a una casa-famiglia, e poi per sfuggire alla mia solitudine, ho creduto di essere amata. Lo speravo tanto, quando insieme a quel ragazzo che mi sorrideva e veniva dalla Romania, ho fatto le due cose più belle della mia vita. Due figli meravigliosi di 3 e 5 anni. Adesso che sono morta, non mi perdonerò mai che i miei due amati figli, mi abbiano vista morire adagiata sulle loro braccia, e non mi perdonerò mai, di non aver avuto il tempo di dir loro il bene sconfinato che gli ho voluto. Piango pensando che hanno perso l’unica persona a cui potevano appoggiarsi anche se le mie spalle erano fragili, l’unica persona che poteva accarezzarli anche se le mie mani tremavano. Ora loro saranno affidati a qualche famiglia come la loro mamma. Ma una cosa non voglio: che si ricordino di me con le parole che hanno accompagnato la mia vita. “È morta una puttana, è morta una zoccola, è morta perché se l’è cercata”.

“Vivevo in un appartamento al terzo piano di una palazzina di Corso Lazio, con una mia parente di origine rom e un uomo di nazionalità egiziana. Loro gestiscono una rivendita di frutta e verdura sul litorale di Anzio. Qualche volta ho avuto dei litigi con loro, un ceffone, dei lividi, ma io dovevo ringraziarli. Mi ospitavano insieme alle mie gioie, e qualche volta, dovevo chinare la testa perché puttana se lo merita. La mattina partivamo da Frosinone, a bordo della loro Bmw, e arrivavamo ad Anzio. Poi mi accompagnavano sulla Nettunense, dove vendevo un corpo che in quei momenti non era mio. Era di una ragazza morta ancor prima di sorridere per la prima volta. Mi hanno ucciso tante volte ma questa volta mi hanno squarciato il corpo. Come dice Sergio Spera uno dei pochi che ha parlato della mia morte, io avevo una colpa gravissima. Facevo la puttana per vivere, e sono morta per femminicidio. Sono un’altra delle 700 e più donne uccise negli ultimi anni dalla violenza dei maschi. Ma non è la prima volta che muoio. Sapete quante volta sono stata uccisa? Una per ogni volta che per strada mi guardavano con disprezzo pensando:” Che schifo”; Una per ogni volta che mi guardavano quando ero vestita per andare a vendere la mia anima e dicevano:” Che prostituta”; Una per ogni volta che quelle persone non vedevano le mie lacrime ma chiudevano la patta dei pantaloni e aprivano il portafogli; Una per ogni volta che nessuno vedeva oltre le mie cosce e i tacchi; Una per ogni volta che sentivo i giudizi, le sentenze su di me. (…).

Ma voglio che sappiate e lo urlo ora che sono morta, che io sono stata una donna come le altre, anche se tante signore non hanno vissuto il mio inferno proprio in questo mondo. Anche io sognavo, anche io volevo un futuro diverso per me e i miei figli, volevo una casa mia, un lavoro che non mi facesse rimpiangere tutte le bugie che ho detto ai miei figli. Io non sono stata una donna di serie A, ma una donna che non ha conosciuto l’alfabeto della società.(…)  Sono morta sulla strada dei Monti Lepini, all’altezza di Prossedi, mentre mangiavo il mio dolore e tenevo per mano i miei figli. Volevo tornare a casa, ma i miei occhi questa volta si sono chiusi per sempre. E non solo per chi mi ha ucciso a calci e pugni, ma per tutte le volte che il coltello si è affondato in me”.