L’Aquila, Inquisizione sul terremoto. “Prevederlo, un dovere”

Pubblicato il 21 Settembre 2011 - 14:27 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – L’Inquisizione ai giorni nostri e cioè condanna, e casomai galera, per chi non prevede i terremoti o almeno non avvisa ogni sera tutti gli italiani che abitano nelle zone a rischio, i tre quarti della popolazione, che stasera è più prudente dormire fuori casa. Si è aperto a L’Aquila il processo contro i componenti della Commissione Grandi Rischi, accusati di omicidio colposo per mancata previsione del sisma e indebita rassicurazione alla popolazione. Sono venuti giornalisti da tutti il mondo a seguire questo processo, in particolare dal Giappone e dagli Usa, paesi che di terremoti ne hanno visti molti ma mai un processo così. L’accusa dei pubblici ministeri Alfredo Rossini e Fabio Picuti, ritenuta plausibile dal Gup, è di “essere venuti meno ai doveri della valutazione del rischio” e “ai doveri di informazione chiara, corretta e completa”. Insomma gli accusati avevano il “dovere” di valutare che un terremoto arrivava, in italiano di prevederlo. E avevano il “dovere” di informare la popolazione.

C’è in queste accuse l’eco, anzi la fotocopia del dolore dei familiari delle vittime. Un dolore che spesso impone alla psiche e all’anima di chi ha perduto un familiare di trovare una ragione comunque, un colpevole comunque, un comunque perché alla ferita che non si rimargina. I familiari delle vittime vanno compresi, la mente umana recalcitra e scarta di fronte alla crudele causalità della morte. E cerca, disperatamente, irrazionalmente cerca una “colpa”, un quid che avrebbe salvato il caro scomparso. Ma la giustizia, la legge possono seguire lo stesso impulso e lo stesso percorso? Possono la giustizia e la legge stabilire niente meno che il “dovere” di salvare vite e cose, stabilire che questo e non altro è la scienza e di conseguenza sanzionare la scienza che non adempie a questo “dovere”? Dovere che, se così impone la legge, diventa magico e non scientifico. Non una novità nella storia umana e nelle umane culture: in molti casi il “sapiente” che sbagliava veniva punito, talvolta anche con la morte. Punito perché il suo errore era la prova che il suo “sapere” non era in comunicazione, benedetto, ispirato e congruo al divino. Ma la scienza moderna non si ancora più, o almeno non dovrebbe più ancorarsi al divino. E la smentita dei fatti alla previsione scientifica è anch’essa scienza sperimentale e non peccato o omissione del “dovere”.

La scienza oggi non sa, non può prevedere i terremoti. E altra scienza non esiste se non quella degli “indovini”. Nè le Commissioni scientifiche possono essere obbligate ad un ipertrofico “principio di precauzione”. Principio che obbligherebbe qualunque Commissione a suggerire ogni notte e ogni giorno l’evacuazione dell’area vesuviana, di vaste zone dell’Appennino, di mezza Sicilia e di tutta l’Italia “a rischio sismico”. Ma la scienza a L’Aquila va sotto processo, alla scienza non si perdona quel che si concede alla fede: nessuno apre un’indagine sul Vaticano perché la divinità cattolica consente un terremoto assassino e nessuno porta in Tribunale il santo patrono che non ha protetto la terra e la gente a lui devota. Quello de L’Aquila è un processo da Inquisizione, nel quale sette scienziati sono chiamati a rispondere del peccato di non aver letto i segni del cielo. E ad espiare, se riconosciuti colpevoli, la colpa di non aver avvertito gli umani dell’ira celeste in arrivo.