“Lavoro grazie a una raccomandazione”: lo dice un italiano su tre

Pubblicato il 22 Novembre 2011 - 00:10 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Segnalazioni, suggerimenti, nomi e cognomi detti al momento giusto e alla persona giusta. L’Italia dei raccomandati funziona così. Ma quante sono nel nostro Paese le persone che devono il proprio posto alla cosiddetta spintarella? Per rispondere all’annosa questione arriva uno studio dell’Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori), condotto su 40mila individui fra i 18 e i 64 anni. Si scopre così che la raccomandazione in Italia è ancora il canale principale per entrare nel mondo del lavoro, a detta degli intervistati: il 30,7 per cento dice infatti di avere ottenuto l’impiego attuale grazie ad un amico o un parente che ha fatto da “intermediario”. E le cifre salgono se si considerano soltanto i lavoratori più giovani, fra i quali ci sarebbero addirittura quattro raccomandati su dieci.

«In questo momento di crisi soprattutto i giovanissimi potrebbero scoprirsi più vulnerabili e più disposti a entrare nel sistema viziato delle raccomandazioni», spiega Alessandro Fusacchia, presidente di RENA, Rete per l’Eccellenza Nazionale. Da questa urgenza è nata l’idea di dedicare una parte dell’ultima Assemblea di RENA – che si è tenuta a Roma lo scorso 11 novembre – al tema “Mi raccomando”, per affrontare la questione del sistema clientelare e parlare dei meccanismi di selezione delle risorse umane.

Secondo l’indagine dell’Isfol soltanto tre persone su cento sono state “piazzate” dai Centri di impiego, mentre per il 7 per cento (e il dato fortunatamente è in crescita, soprattutto per le fasce d’età più basse) hanno fatto da tramite agenzie e società di ricerca del personale, scuole e università. Un altro 7,5 per cento del campione dichiara di avere ottenuto un’opportunità di impiego attraverso contatti nell’ambiente lavorativo: un aspetto, questo, da interpretare in senso positivo, perché legato al merito e alla reputazione maturata dall’individuo sul posto di lavoro. In altre parole, all’accezione che il termine “recommendation” ha fuori dai confini italiani.

«All’estero si tratta di un concetto sano – aggiunge Alessandro Fusacchia – Se qualcuno decide di sponsorizzarti lo fa perché sei bravo, perché crede in te, e ci mette la faccia insieme a te. In Italia è tutto l’opposto: ci si sente più forti se si riesce a piazzare uno che bravo non è». Il “benefattore”, poi, lavora nell’ombra, contribuendo ad alimentare un sistema che è parte della cultura del Bel Paese. «Un problema che non è legato soltanto alla classe politica – conclude Fusacchia – perché in Italia alle raccomandazioni si ricorre per tutto, dal posto di lavoro al permesso per il parcheggio sotto casa». C’è qualcosa che i politici, e in particolare il nuovo governo, dovrebbero fare? «Semplicemente cominciare a dare l’esempio, per avviare un cambiamento che dovrebbe coinvolgere gradualmente l’intera società civile».