Lidia Macchi, perso Dna killer: nuova indagine 29 anni dopo

di Redazione Blitz
Pubblicato il 21 Marzo 2016 - 09:58 OLTRE 6 MESI FA
Lidia Macchi, perso Dna killer: nuova indagine 29 anni dopo

Lidia Macchi, perso Dna killer: nuova indagine 29 anni dopo (Foto archivio Ansa)

MILANO – Il Dna del killer è andato perso e dopo 29 anni l’omicidio di Lidia Macchi è ancora un mistero. Una nuova indagine ora torna a puntare il dito negli ambienti di Comunione e liberazione, Cl, e che continua anche dopo l’arresto lo scorso gennaio di Stefano Binda, ex compagno di liceo di Lidia Macchi e ciellino. Ora il cadavere della Macchi potrebbe essere riesumato a caccia di nuove prove del Dna e il sospetto di un depistaggio o che qualcuno possa aver nascosto la verità è alto. C’è poi la testimonianza di Patrizia Bianchi, amica di Binda, che parla anche di una confessione del killer ad un parroco “Don”.

Giacomo Galeazzi, Marco Grasso e Ilario Lombardo su La Stampa scrivono che la colpa si mescola alla superficialità nelle indagini sull’omicidio di Lidia Macchi, tra vetrini andati distrutti e prove scomparse, oltre che presunti depistaggi:

“Qualcosa è andato storto nelle indagini, e qualcuno potrebbe aver nascosto la verità. Solo lo scorso gennaio un uomo è stato arrestato. Stefano Binda, ciellino ed ex compagno di liceo di Lidia. Ha sempre vissuto a Brebbia, mezz’ora da Varese ma a dieci minuti di macchina da Cittiglio dove Lidia è stata trovata senza vita. A incastrare Binda la grafia riconosciuta da un’altra amica di Cl, Patrizia Bianchi. Una testimone che, come ha svelato La Stampa, ha messo gli investigatori sulle tracce di un prete che potrebbe aver ricevuto la confessione del delitto. L’inchiesta, ora in mano al sostituto pg di Milano Carmen Manfredda, non esclude due ipotesi: la complicità diretta di un sacerdote, e le coperture di Cl, molto potente a Varese.

Due piste battute da subito da Abate. La Stampa è riuscita a leggere il resoconto delle indagini redatto a un anno dalla morte di Lidia. Nonostante le differenze investigative, alcune conclusioni e suggestioni coincidono. A pagina 46 si ipotizza che il killer abbia chiesto un «aiuto fidato». A chi? Se venisse confermato che l’assassino è Binda, lì vicino abitava don Giuseppe Sotgiu, suo amico di Cl, che proprio quel pomeriggio, poco prima dell’arrivo di Lidia, era stato all’ospedale di Cittiglio a trovare la comune amica Paola Bonari. Proprio da Abate Sotgiu fu indagato, primo tra tutti. Oggi, sacerdote a Torino, ci risponde di non aver aiutato Stefano. Abate, come la Manfredda, sostiene la tesi che Lidia conoscesse il suo assassino. Per lui però il rapporto sessuale fu consenziente.

Su Abate si scaglia una reazione violentissima quando il magistrato punta sulla cerchia ciellina di amici di Lidia e sui preti. Ne torchia quattro. Intervengono la Curia e la Procura di Milano, deputati della Dc, in un clima di chiusura che verrà descritto da Abate: «Riottosità e diffidenze» dei ciellini che «fuori dagli uffici» si organizzano in gruppi per «discutere dei comportamenti da tenere» di fronte alle domande del pm, «nonostante il segreto istruttorio». Abate parla di «favoreggiamento»: su Cl è netto e denuncia «illegali pressioni» e «l’esistenza di un gruppo di potere extra-giudiziario che tenta di condizionare questa indagine con spregiudicatezza». 29 anni dopo, le parole sono più morbide ma le impressioni di magistrati e legali non sono così diverse. L’avvocato della famiglia Macchi racconta dell’incontro con un dirigente ciellino che sul delitto Macchi lo ha gelato: «Mi ha detto: “Questo per noi è un peccato, non un reato”». Parole che hanno indotto Pizzi a chiedere e ottenere un colloquio con don Julián Carrón, leader di Cl: «Mi ha tranquillizzato dicendomi “Nessuna opposizione da parte nostra. Sia fatta verità”»”.

A portare all’arresto Binda è la testimonianza di Patrizia Bianchi, la super testimone dell’omicidio di Lidia Macchi, come scrivono in un altro articolo de La Stampa i tre giornalisti:

“La comunità di Varese è ancora sconvolta dall’omicidio, quando Patrizia raggiunge Stefano davanti alla chiesa di San Vittore. Secondo gli appunti della donna il dialogo è questo: «Tu non sai, non puoi nemmeno immaginare cosa sono stato capace di fare». Firmato, tra parentesi, “T.” «Forse è per questo, di certo per questo, che non ho insistito nel chiederti perché vai a letto così tardi». Firmato “L”. «Per quanto è nelle tue responsabilità, e questo solo Dio lo sa, io ti perdono». Firmato “D”. Chi sono, “T”, “L” e “D”? Sono iniziali: le prime due stanno per Teti e Loa, i soprannomi affettuosi che si scambiavano Stefano e Patrizia. Il terzo per Don. E’ un prete che, secondo la ricostruzione di Patrizia, avrebbe ricevuto la confessione dell’assassinio. Un prete, ancora. E’ una storia piena di preti, questa. Perché è una storia che coinvolge uno dei più importanti movimenti ecclesiali in Italia. Lidia, Stefano e Patrizia facevano parte di Comunione e Liberazione, un brand politico-religioso che a Varese domina sin dalle origini. E’ su questa cerchia di amici che puntano subito gli investigatori, lasciando un’ombra su Cl che non se ne andrà mai più”.