ROMA – Lisa Lowenstein, la ex moglie su cui si incardina e si esercita per prima la sentenza della Cassazione. Sentenza d’ora in poi per tutti gli ex coniugi, dice che hanno diritto all’assegno solo se non hanno lavoro, patrimonio, casa. E dice la sentenza che l’assegno, se assegno ci deve essere, deve avere importo buono per sopravvivere, mantenersi. Non più importo tale da mantenere il tenore di vita di prima. Dice la sentenza dunque che sposarsi non è essere assunti da un’azienda e che il matrimonio non significa stipendio e liquidazione e pensione…
Lisa Lowenstein, raggiunta da La Repubblica negli Usa, un’intervista tutta da leggere. Impagabile l’incipit: “Piange, non si dà pace”. E che sarà mai accaduto alla povera donna, un lutto? No, piange per la sentenza che arriva dall’Italia. Meravigliosa, fantastica l’ultima riga: “Verrei in Italia, ma non so dove trovare i soldi per il biglietto”. Inarrivabile l’intermezzo: “Da lui, dal mio ex marito ho avuto solo 500 mila euro”.
Solo 500 mila euro, queste quattro parole spiegano l’ottimo perché e il buon succo della sentenza. Se l’assegno divorzile lo leghi al “tenore di vita precedente”, mezzo milione di euro possono essere accompagnati da quel “solo” che altrimenti appare osceno. La signora Lowenstein racconta, piange miseria, rimembra gli anni di una vita dura, il suo lavoro era feste, ricevimenti, mondanità, badare all’immagine del coniuge. Anni di rinunce, ci fa sapere che quelli che studiavano con lei mezzo milione lo guadagnano in un anno. Anni di frustrazioni, i negozi negli aeroporti di Roma e Venezia da gestire, la società che forse fallisce ma lei non ricorda, non sa bene perché non si occupava dell’amministrazione.
Non manca nei ricordi della signora lo stigma contro l’Italia che non premia il merito ma solo le conoscenze: per farsi lavare bene i capi in tintoria le dissero di far sapere alla tintora che lei conosceva gente in alto…brr, signora mia che paese barbaro. E da questo paese barbaro sentenza barbara che affama una povera donna.
Difficile capire perché La Repubblica si presti come lacrimatoio a questa grottesca lacrima di ex coniuge che sembra tratta dalle cronache fantozziane sulla contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare…Affati e sensibilità de La Repubblica. Quel che è certo è che all’indomani della sentenza è partito alla grande il lamento degli avvocati e delle mogli di professione.
Gli avvocati è presto detto: se l’assegno all’ex coniuge diventa di sostentamento e non di rendita, se come dice la sentenza il matrimonio si esaurisce quando si rompe non solo sul piano privato m anche su quello economico, allora per gli avvocati viene meno un cespite, una fonte di reddito. Certo restano, anche se un po’ diminuiranno, le cause di divorzio. Ma la posta in gioco, l’incentivo e cioè i soldi diminuiscono. E diminuiscono per tutti, avvocati compresi. C’è un che, più di un che di squallido nel ripararsi dietro la difesa del “coniuge più debole” e del “sentenza per ricchi” quando con tutta evidenza si teme per l’erosione del proprio budget.
Delle mogli di professione ve n’è di due tipi. Donne che ritengono, credono, rivendicano, sono state educate a che il matrimonio sia il porto di una vita, il porto anche economico. Donne che ritengono, giurano, vogliono lo sposarsi come il contrarre un’assicurazione che dà una rendita. E che quindi quando il matrimonio si rompe nella vita ritengono loro diritto prosegua nel portafoglio. Questo tipo di mogli di professione fa presto ad evolvere in ex mogli che danno ai loro avvocati l’indicazione di “fargliela pagare” e “toglili anche la camicia” quando e se arriva il divorzio. Questo tipo di mogli di professione è furibondo per la sentenza, vede a rischio un progetto di vita: farsi mantenere a vita non nel matrimonio ma dopo il matrimonio.
L’altro tipo di mogli di professione, meglio dire di mestiere, è quello di milioni di donne che non vogliono spillare, estorcere, portar via proprio nulla all’ex coniuge. Anzi battagliare sui soldi le offende e umilia. Però hanno dedicato anni se non decenni al ruolo di madre e/o di casalinga. Sono fuori dal mercato del lavoro, non hanno possibilità di rientrarvi. Non dispongono di patrimonio personale consistente, non sono ricche. Se il matrimonio si rompe hanno bisogno di un assegno dall’ex coniuge per sopravvivere, né più né meno.
Questo tipo di mogli di mestiere va difeso dalla applicazioni distorte e strumentali di quella che è una buona e giusta sentenza. Così come finalmente questa sentenza aiuta gli ex mariti a reddito medio che il divorzio e l’assegno alla ex moglie precipitano nella indigenza (quella vera, non quella alla Lowenstein).
Qui e adesso nella vita vera della maggioranza delle gente vera quando una famiglia si rompe e questa famiglia poggiava su un solo reddito mettiamo da duemila al mese netti non vi può essere assegno dell’uno che garantisca all’altro il tenore di vita di prima. Chi deve pagare questo assegno va in miseria. Assegno vi deve essere ma tale che entrambi possano più o meno farcela e non certo al “tenore di vita di prima”.
Se invece i redditi erano due, allora il coniuge più forte economicamente non si vede perché debba integrare il reddito dell’altro a meno che questi non ce la faccia a essere autosufficiente: se marito e moglie guadagnavano duemila l’uno e mille l’altra e se alla ex moglie resta la casa non c’è ragionevole spazio per assegno.
L’unico vero e sacrosanto e indiscutibile assegno di un coniuge all’altro quando il matrimonio si rompe è quello per il mantenimento, istruzione e salute dei figli. Questo semplicemente dice la sentenza ma, statene certi, tra lacrime, lamenti e sceneggiate non sarà facile farla applicare.