Mantova: “Guarda la scimmia”. Lettera contro il papà razzista

Pubblicato il 10 Febbraio 2012 - 14:59 OLTRE 6 MESI FA

MANTOVA – “Guarda la scimmia”. Questa frase l’ha detta un papà alla sua bimba: davanti a loro stava passando una comitiva di ragazzi del liceo, tra loro anche Esther, una ragazza di origine nigeriana. Esther è una “diversa” per questo papà, che ha pensato bene di insegnare alla figlioletta come, secondo lui, vanno classificati i “diversi” come Esther: scimmie, appunto. La storia viene da Mantova, la protagonista una 19enne figlia di nigeriani dal passato difficile, fatto di abbandoni e case famiglia. Ma anche, evidentemente, di insegnanti sensibili e disponibili. E’ stata la professoressa Laura Ferrari, che segue Esther da anni, a scrivere una lettera alla Gazzetta di Mantova per denunciare un episodio di ordinario razzismo che stavolta, però, non è passato sotto silenzio. Ecco il testo della lettera:

«Luisa, guarda! Guarda la scimmietta!». Esther, 19enne di origine nigeriana, in Italia da 19 anni(!), sta passeggiando tra le giostre appena arrivate al parco del Te, insieme ad alcune amiche. Come molti giovani della sua età, dopo una mattinata di scuola, dove frequenta il quinto anno, e qualche ora pomeridiana sui libri, ha voglia di svagarsi un po’. Esther non ha una famiglia “vera”. Il suo passato, pur così breve, è costellato di abbandoni, di spostamenti da una città all’altra, di famiglie affidatarie.

E poi case-famiglia dove le hanno insegnato valori importanti e sani, e anche però della paura costante di un futuro buio. Molto più incerto di quello dei giovani che una famiglia ce l’hanno. Paura di non farcela, paura di essere sempre inadeguata a tutto, paura della sua condizione di straniera nel nostro paese, dove è cresciuta sin da piccolissima. Nigeriana, ma neppure nata in Nigeria. Sua madre l’ha partorita, sola, in un paese nord-africano da dove se l’è portata via subito, in un fagottino.

Come poteva ribellarsi? Come si faceva a dirle che era (lo è stata da neonata…) “clandestina”? Ancora oggi non è cittadina italiana, anche se quando si arrabbia un po’ parla persino il nostro dialetto (somiglia a uno strano, comico “doppiaggio” in questi rari casi). Ha paura del suo stesso corpo, che spesso si ribella e si ammala: troppo stress sin da piccola, dicono i medici. Ma Esther è una ragazza forte. Ha una madre, in un’altra città, che non ha mai imparato a fare la madre, nonostante abbia messo al mondo 8 figli, oggi sparsi tra Africa e Italia. Padri tutti diversi, tutti lontani, inesistenti. Esther ogni tanto telefona a sua madre, la va a trovare, ora che finalmente è maggiorenne, ma presto riparte perché i ruoli regolarmente si invertono: la madre si comporta da figlia di sua figlia e le chiede cose impossibili, che Esther non è certo in grado di dare o di fare.

Non so se ci sono “colpe”: non so che madre ha avuto sua madre… Si impara ad amare, non è così scontato né innato, evidentemente. Vive da sempre una sorta di hubrys: gli errori dei padri (e delle madri) ricadono sui figli, ma non per volere degli dèi o di un Dio. Non si può dare o insegnare quello che non si ha e non si ha mai avuto. Questi e altri sono spesso i pensieri di Esther, durante il giorno, e i suoi incubi, nelle sue notti agitate. Ora vive con me (una sua insegnante) e con la mia famiglia già abbastanza numerosa. Non è stata “adottata”, non è in affido. E grande ormai. E’ in regola coi documenti.

E’ stata accolta non per pietà, né perché siamo “buoni”: è Esther che è buona, nel senso più profondo e nobile del termine, è gioiosa nell’anima, come tanti africani ha una grande energia vitale dentro di sé, è ottimista quasi oltre ogni “ragionevolezza”, ostinatamente ottimista, ostinatamente credente in Dio e nella Provvidenza, a dispetto delle circostanze e delle mille difficoltà che incontra.

Questa fede nella Provvidenza che diverse volte le ha risposto concretamente e di cui molti sorridono con aria di compatimento e di sufficienza, le dà il coraggio e la forza di rialzarsi ogni volta che gli ostacoli della vita quotidiana – tanti – la fanno cadere. Purtroppo persiste l’idea che una ragazza nera, un po’ appariscente – e non per colpa sua – faccia per forza quel “mestiere”. A questo Esther si è “abituata” e i commenti e gli apprezzamenti volgari che le vengono lanciati per strada quasi non li sente più. I miei figli, più o meno suoi coetanei, si abbattono per molto, molto meno.

«Luisa, guarda! Una scimmia!». Seguono risate sguaiate. Esther, per strada, è rimasta un po’ indietro rispetto ai suoi amici. Tra le cabine delle giostre che girano e volteggiano, in mezzo al frastuono delle canzonette sparate dagli altoparlanti, lei si ferma e si volta, incuriosita e un po’ spaventata: vuol vedere anche lei la “scimmia”. Ma quella scimmia è lei. E’ di lei che ridono. Sono padri di famiglia. “Luisa” è una bambinetta (bianca) seduta a cavalcioni sulle spalle di papà. Ride ovviamente anche lei, ignara della stupidità del padre.

Povera Luisa: che valori le insegneranno in famiglia? Il padre di Luisa non è solo e a ridere forte non sono degli adolescenti un po’ sciocchi e bulli: sono uomini adulti, almeno all’anagrafe. La cattiveria gratuita esiste. Esther lo sa. Ma torna a casa nostra, che per ora è diventata la sua, con una ferita in più. Non mi ha raccontato subito questo episodio: sepolta dalla vergogna. La vergogna di essere nera. Come una “scimmia”.

La “scimmia” è invece una bella ragazza, con occhi profondi come la sua Africa, dal carattere solare, con una voce da gospel meravigliosa e una risata contagiosissima, vivace e intelligente, quasi diplomata. Mai perso un anno. Sono io, io che mi vergogno. Io che mi vergogno di questi concittadini inqualificabili, di questi adulti violenti – perché di violenza si tratta -, di questi padri incoscienti e pericolosi che credono di “educare” così i loro figli. Scusa, Esther. Perdonaci questa ennesima, gratuita umiliazione.