Milano, tentò di rapire neonata in clinica Mangiagalli: condannata a 3 anni

di Redazione Blitz
Pubblicato il 27 Marzo 2018 - 11:52 OLTRE 6 MESI FA
Milano, condannata per tentato rapimento di neonata

Milano, tentò di rapire neonata in clinica Mangiagalli: condannata a 3 anni

MILANO – Ha tentato di rapire una neonata lo scorso luglio dalla clinica Mangiagalli e ora i giudici di Milano l’hanno condannata a 3 anni di carcere.

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La donna, una casalinga ecuadoriana di 33 anni e residente a Mediglia, lo scorso luglio si era recata nella clinica Mangiagalli di Milano e aveva tentato di rapire una neonata. Un “gesto folle”, ha dichiarato il pm nel chiedere la condanna a 4 anni e 6 mesi, maturato dopo aver perso un figlio qualche mese prima.

La donna, accusata di sequestro di persona aggravato e sottrazione di minori e ora libera, è rimasta in cella a San Vittore per circa sette mesi. Ha risarcito i genitori della piccina che ha tentato di rapire. “Ho avuto paura che il mio compagno mi lasciasse – aveva detto in aula durante il suo esame – è per questo che l’ho fatto. Chiedo perdono alla madre”.

La casalinga, che ha già una figlia di 7 anni avuta da una relazione precedente, aveva raccontato di avere avuto “paura” che la nuova relazione con il compagno finisse a causa della perdita del bambino che portava in grembo. Questo perché il convivente di prima l’aveva lasciata dopo un aborto spontaneo. I giudici della quinta sezione penale presieduti da Ambrogio Moccia hanno ritenuto di concedere alla signora le attenuanti equivalenti alle aggravanti.

Secondo la ricostruzione del pm la casalinga di Mediglia, paese nel Milanese, era stata vista nei giorni precedenti il rapimento nei pressi del ‘nido’ della clinica Mangiagalli. Quando poi ha preso la neonata è stata inseguita da un’infermiera che le gridava di fermarsi. Cosa che ha fatto in quanto ha capito di non avere scampo. Una volta bloccata “non ha potuto fare altro che riconsegnare la bambina” e a riprova della sua “determinazione” è pure quella borsa che la donna aveva con sé: dentro c’erano cappellini rosa, guantini, calzini, scarpette, un biberon e pure un braccialetto come quelli che in genere si mettono al polso dei bimbi appena nati per identificarli e per evitare che siano scambiato o sottratti dalle loro culle.

Secondo il rappresentate dell’accusa, “alla base del fatto c’è di certo il dramma umano della donna che aveva preso il bambino e che aveva paura di essere lasciata dal marito, ma questo non può influenzare il discorso giuridico”. Il difensore, l’avvocato Nicola D’Amore, ha invece sostenuto che la sua assistita ha compiuto il gesto in un momento in cui era incapace di intendere e volere. Ha messo in luce che il risarcimento è stato fatto esclusivamente allo scopo di “chiedere perdono” ai genitori della bambina. Ovviamente ha chiesto l’assoluzione e in subordine il minimo edittale della pena. I giudici l’hanno condannata a 3 anni, una pena inferiore a quella chiesa dal pm, e tra 15 giorni saranno depositato le motivazioni della sentenza.